Come
già annunciato, ecco qui dei sample estratti da Hoodlum e il lato
oscuro e altri racconti.
Buona
lettura!
Hoodlum
e il lato oscuro
Mi
appoggiai alla ringhiera. Sotto di me si estendeva la città, coperta
qua e là da cascami di foschia. La osservai a lungo, come se fosse
la prima volta. In una certo senso era proprio così. Avevo sempre
pensato di trovarmi in un luogo forse noioso, ma tranquillo,
cartesiano, logico. Invece le scoperte degli ultimi giorni mi avevano
fatto capire che sotto quell’apparenza tranquilla e paciosa in
realtà si nascondeva una realtà labirintica, oscura. Ma forse c’era
una corrispondenza biunivoca tra l’apparenza e la realtà, forse
era proprio perché la noia e la monotonia regnavano sovrane che
certe cose potevano continuare ad accadere nella più completa
impunità. O forse, ma qui si entrava nel terreno accidentato della
paranoia, forse qualcuno aveva tutto l’interesse che questo stato
di cose venisse mantenuto, forse dietro a quello che avevo scoperto
c’era persino un piano, o un grande vecchio che tirava le fila di
quella decadenza di provincia, ancora più disgustosa di quella delle
metropoli, o almeno così pensavo in quel momento…
Ma
forse è meglio che cominci dall’inizio…
Se
uno avesse voluto mettere insieme un gruppo rock in quei ultimi
giorni di liceo, verso la metà degli anni Novanta, aveva la
possibilità di scegliere fra tre tipi di persone: quelli che avevano
studiato violino fino al giorno prima, che poi per chissà quale
motivo avevano scoperto il rock ed erano diventati dei virtuosi senza
palle, quelli che avevano imparato a suonare la chitarra acustica per
fare i coretti da spiaggia, e gli esaltati che avevano scoperto
l’heavy metal perché in quei giorni andava di moda, quindi si
erano comprati un’attrezzatura all’ultimo grido per poi limitarsi
a guardarla perché non avevano la minima idea di come si suonasse
una nota.
E
poi c’ero io. A me non fregava molto del discorso rock alla moda,
non avevo studiato musica classica né avevo imparato a suonare
l’acustica. Solo, io scrivevo testi e poi avevo scoperto che ero in
grado di metterci su una linea melodica con l’ausilio di una
vecchia chitarra che se non altro era un’elettrica, il tutto con
gran gusto. Solo che un bel gioco dura poco, e un giorno mi era
venuta voglia di sentirle suonate da un vero gruppo, ‘ste fottute
canzoni. E poi c’era il discorso cantante, ma adesso sto esagerando
con la velocità. Fatto sta che in quei ultimi giorni di scuola, al
di là di quella seccatura senza importanza dell’esame di maturità,
avevo scoperto che un paio di persone della scuola erano coinvolte
nella musica, uno si era dato il soprannome di Thug, non chiedetemi
perché, l’altro era noto con il nomignolo di Frenzy, anche questo
per motivi misteriosi. Uno aveva una discreta dimestichezza con la
batteria, l’altro con il basso. Non solo, ma un nostro amico aveva
messo su una sala prove comunitaria costituendosi in un’associazione
o una cosa così, per cui ci trovammo anche con il posto dove
provare. Che il tempo che impiegammo per perfezionare i primi pezzi
con il nostro gruppo, che avevamo chiamato King Hoodlum, dal titolo
di una canzone che mi piaceva molto, facesse abbassare di un tot il
nostro punteggio di uscita dal liceo, non ci sembrava un problema, e
di fatto, retrospettivamente, non è che se avessi preso una decina
di punti in più a quest’ora avrei avuto più soddisfazioni, per
cui, ‘fanculo. Il vero problema era piuttosto che non avevamo
nessuno da mettere dietro quel fottuto microfono.
E
allora a me venne un’idea che non esito a definire grandiosa: a
scuola c’era una tipa, che si chiamava Pamela, che era la fine del
mondo. Insomma, era il sogno bagnato di tutta la scuola. Solo che io
ero da annoverare in quel 10% della popolazione maschile studentesca
che andava oltre questo e prima di arrivare al comune epilogo, di
sogni su di lei me ne facevo anche di molto articolati, di una
romanticheria da vergognarsi. Che volete, doveva essere la
controparte fantasioso-erotica del fatto, ben risaputo tra l’altro,
che a tutti i rockettari duri piacciono le ballad romantiche. A me
hanno sempre fatto cagare, ero l’unico a skippare quando arrivava
Nothing else matters, per cui compensavo con dette fantasticherie. Da
vergognarsi, appunto, non fosse stato che la nostra aveva: aria
aristocratica, statura da top model, capelli biondi lisci e in più,
specialmente nell’ultimo anno, un look che dava sul rocker andante,
proveniente dalla frequentazione saltuaria di tipi un po’ loschi.
Per cui mi dissi: perché non chiederle di cantare per noi,
rockettari veri ma anche veramente innocui? Egocentriche come sono
tutte le donne, figuratevi se si fosse lasciata sfuggire un’occasione
del genere, e in questo modo io avrei preso due piccioni con una
fava, come si suol dire: da una parte avremmo avuto una signora
cantante, dall’altra avrei avuto finalmente la scusa per parlarle,
cosa che cercavo di fare da mesi senza venire a capo di niente.
Certo, c’era il fatto che non sarei stato solo con lei in sala
prove, ma in fondo chi scriveva le canzoni ero io per cui avrei avuto
qualche scusa in più per starle vicino. E questa sicuramente era una
di quelle fantasie ricorrenti.
E
la cosa più divertente fu che in effetti la cosa funzionò. Nella
sua scalata verso il successo infatti Pamela aveva preso lezioni di
dizione, di portamento, di eleganza e ovviamente di canto. Per cui,
anche se l’entusiasmo non era di sicuro la sua dote principale, si
decise a darci una chance.
Il
fatto era che effettivamente tra noi e lei, purtroppo solo a
livello musicale, si sviluppò ben presto un certo feeling, cosa che
per la fine dell’estate avrebbe potuto concretizzarsi in un
concerto.
Fu
allora che accadde: Pamela scomparve. Ci lasciò privi di una singer
a meno di tre giorni dal concerto.
Per
questo motivo, dovemmo rinunciare, ma quello che era peggio, noi tre
ci trovammo in disaccordo su come reagire a questa situazione
antipatica. In sintesi, Thug e Frenzy avrebbero preferito fare finta
di niente e cercare un’altra cantante, magari di sesso maschile
visto che ormai le donne avevano cominciato ad avere tutte la nomea
di tirapacchi. Io invece mi ero incaponito nel riportare Pamela nel
gruppo, o quanto meno avere un confronto con lei sul reale motivo per
il quale ci aveva dato buca in quel modo. E questo disaccordo crebbe
a tal punto che anche i tre rimasero in due: a un certo punto
infatti, più o meno verso settembre inoltrato, mi scoprii a passare
più tempo a pensare a Pamela che neanche a suonare, anche se
continuai a tempo perso con i miei esercizi di scrittura delle
canzoni. E questo fu più o meno quanto. Senza contare che da lì a
poco sarebbe iniziato un’altra grande seccatura: l’Università. A
quanto pareva, la grande fabbrica dei disoccupati avrebbe avuto
un’altra vittima.
E
qui, più o meno, inizia la storia vera e propria.
King
Hoodlum
[...]
Ero
impressionato. La potenza di fuoco che il gruppo stava sparando fuori
era veramente notevole, e bisognava tenere conto che si trattava solo
di una prova e che mi trovavo al di là di una spessa porta dotata di
pannelli per l’isolamento acustico. Rimasi appoggiato al muro, le
mani infilate nelle tasche del mio giubbotto di pelle leggero,
attendendo che il frastuono cessasse, poi, quando questo avvenne,
bussai e senza attendere risposta, anche perché probabilmente le
persone nella sala dovevano essere talmente rintronate che mai
avrebbero potuto distinguere il rumore, entrai.
Mi
trovai di fronte i soliti quattro paio di occhi gelidi che lo
fissavano, era sempre così quando si entrava in una sala prove senza
essere stati debitamente invitati, era come entrare in una proprietà
privata, in un territorio ben delimitato e a tutti gli effetti era
così. Si era sempre considerati degli intrusi, anche se magari chi
stava entrando era un executive di un’importante major pronta a
offrire al gruppo di turno un contratto discografico
multimiliardario. Cosa che, per come era in decadenza, per non dire
in putrefazione, il mondo del rock, accadeva sempre più di rado.
Ma
tornando a noi, mi presentai come l’editore di una fanzine che
aveva in mente un articolo sulle female vocalist e chiesi
educatamente se era possibile scambiare qualche parola con la loro
cantante.
Una
specie di nube temporalesca passò fra i membri del gruppo. Sapevo
cosa stavano pensando, e non mi sentii di biasimarli: in effetti in
quella città erano state uccise tre ragazze negli ultimi mesi, e in
quel momento io potevo essere il killer che aveva inventato un altro
modus operandi, ovvero andare a stanare le sue vittime direttamente
in sala prove.
Cercando
di essere il più possibile innocuo, alzai le mani mostrando le palme
in un universale segno di pace e dissi:
“Tranquilli,
ragazzi, la porto solo qua fuori alle macchinette del caffè, davvero
niente di cui allarmarsi.”
Kira
marciò davanti a loro con un passo lento ma elastico e sicuro.
“Avete
sentito, ragazzi? Davvero niente di cui allarmarsi.” Poi continuò,
rivolta verso di me: “e poi lo sanno anche loro che un piccolo
killer di merda non mi mette certo paura, a me.”
Uscimmo
insieme dalla sala prove, e devo ammettere che mi sentivo un tantino
scombussolato, non mi ero sbagliato nel giudicarla la prima volta che
l’aveva vista, se la sua prima impressione era stata che c’era
davvero qualcosa in lei che suscitava desideri perversi oltre ogni
immaginazione, adesso avrei potuto visionare nella mia mente molti di
quei desideri con notevole precisione e senza alcuno sforzo. Dovetti
fare forza su me stesso per mantenere un atteggiamento freddo e
professionale, mentre lei, come se mi avesse letto nel pensiero, mi
rivolse la sua personale versione di un sorriso, un sorrisetto di
scherno fatto di piccoli denti che in qualche modo risaltavano come
zanne sotto le labbra rosse e sottili. Sempre in ossequio di
quell’atteggiamento freddo e professionale, tirai fuori la mia
Moleskine nera e una penna e le rivolsi le domande che mi ero
preparato, le avevo copiate da una vecchia intervista a Shirley
Manson, la cantante dei Garbage, fino a quando non potei rivolgerle
le domande che davvero mi interessavano.
“Senti,
Kira, come saprai la scena musicale della città è stata
attraversata da tre brutali omicidi di cantanti negli ultimi mesi…
ti senti spaventata per questa cosa?” La domanda era discretamente
imbecille, ma non è che i veri giornalisti fanno molto di meglio.
“Look,
devo dire che in parte certo, sono molto spaventata, senza contare
che questa cosa ha anche scoraggiato i gestori a far suonare tutti i
gruppi dal vivo…”
“Già,
la stagione non è certo decollata… però in fondo è anche giusto
così, no? In fondo nessuno di voi è un professionista e la vecchia
regola del The
show must go on può
ben infrangersi contro un’eccezione fondata su motivi di puro
stampo etico…”
“Però
non mi sembra affatto giusto che la mia libertà personale di
esibirmi debba essere limitata da fatti di cronaca.”
“Intendi
dire che avresti il coraggio di esibirti, insomma.”
“Ma
certo. Era quello che volevo dire prima… da una parte sono
spaventata, però in fondo il pericolo mi eccita anche… senza
contare che a dirla tutta…”
“A
dirla tutta?”
“No,
niente. Dico solo che il pericolo può aiutare la creatività.”
“Senti,
cambiando un attimo argomento, cosa facevi prima di entrare in un
gruppo rock?”
“Mah,
niente di particolare, un po’ di associazionismo… poi però ho
incontrato una persona meravigliosa che mi ha fatto scoprire la
musica…”
Oltre
alla droga e la ribellione sociale vuota e violenta,
pensai
quasi mio malgrado, ripensando all'incontro che io e Gabry avevamo
avuto con Netti.
“Chi
è questa persona? Cioè, se posso chiedere.”
Lei
mi scrutò freddamente, per la prima volta.
“No,
non puoi,” disse in tono secco, poi continuò in modo più
gattinesco: “sai, un personaggio pubblico come me vuole mantenere
sempre dei segreti.”
“Capisco
perfettamente. Però senti, Kira, avrei una proposta da farti…”
“Sono
tutt’orecchi…”
Hoodlum
the third
[…]
Beh, in effetti a vederlo da
fuori il Factory non era poi tanto male. Si saliva una rampa di scale
e ci si trovava di fronte a un edificio scaleno dipinto di rosso e di
nero. Quella sera non erano schedulati concerti, tuttavia una lunga
fila di ragazzi vestiti nel modo più alternativo possibile, tra cui
anche qualche metallaro, faceva bella mostra di sé tutto intorno al
locale. Tuttavia, a dir la verità, i metallari erano un po’ pochi,
mi sarei aspettato una presenza più massiccia, ma tant’è.
Entrai, andai difilato al
bancone e ordinai qualcosa da bere a una cameriera che non aveva
niente da invidiare alla presenza fisica di Sabine – alla faccia
sua – e cercai di capire come procedere. Mi venne un’ispirazione
improvvisa.
“Ehi,
scusa,” dissi in inglese alla barista, in un momento di calma.
“Cosa ti
porto?”
“Una Coca,
però mi servirebbe anche un’informazione.”
Lei mi squadrò in modo neutro,
né incoraggiante né ostile, evidentemente lasciando a me la
responsabilità di interpretare il suo reale stato d’animo. Dal
momento che non avevo altra scelta, mi buttai e chiesi:
“Senti, ho
risposto un annuncio di un certo Matthias Liebetruth per un posto di
chitarrista. Mi aveva dato appuntamento qui, ma non riesco a
trovarlo, anche perché non l’ho mai visto…”
“E Matthias
ti avrebbe dato appuntamento qui…” lei mi rise in faccia, poi
disse qualcosa in tedesco che non suonava affatto positivo. Presi la
mia Coca e mi spostai, notando nervosamente che la barista aveva
persino allertato il buttafuori, che si spostò nella mia direzione.
Merda.
In che cazzo di casino mi stavo
cacciando?
Errore.
In che cazzo di casino mi ero
già cacciato, visto che il buttafuori mi impedì di muovermi
mettendomi un avambraccio grosso come un prosciutto sul petto.
“Sei un
amico di Matthias Liebentruth, eh?”
“Non mi
pare una figata poter dire una cosa del genere… ho risposto
semplicemente al suo annuncio.”
“Non dire
balle… è da un bel po’ che il merda non mette piede qui dentro…
da quando gli abbiamo interdetto l’ingresso. Quindi la domanda è:
tu che cazzo ci fai qui?”
“Senti,
amico, non è colpa mia se il fottuto si è sbagliato, no?
L’appuntamento me l’ha dato qui, ti dico.”
“Eh, no, io
dico che sei uno di loro. Adesso tu vieni su con me dal capo e la
paghi per tutti.”
Non sapevo a che cosa cazzo si
stesse riferendo, ma avevo la netta impressione che fosse tempo di
passare all’azione, anche perché a me, non so perché, i
buttafuori sono sempre stati sul cazzo per definizione. Ringraziando
dentro di me la punta d’acciaio dei miei anfibi, e ancor di più il
fatto che dopo il mio incontro con i picchiatori del primo episodio
mi ero fatto dare delle lezioni di difesa personale, gli picchiai
secco e veloce sul ginocchio. E per la famosa regola che più grossi
sono più rumore fanno cadendo, il tipo fece appunto parecchio
rumore. E a quel punto mi diedi dell’idiota, perché le luci si
accesero, la musica si spense, un qualcosa simile a un getto di freon
ghiacciato si estese in tutto il Factory, e io mi trovai da solo
contro cinque o sei elementi della security di dimensioni uguali e/o
superiori a quello che avevo abbattuto. E a quel punto passai al
piano B. E sembrò anche funzionare, perché gli esponenti della
security del locale sembrarono debitamente impressionati dal fatto
che urlai di essere l’advance person dei Rocking Wild, il gruppo
che avrebbe dovuto suonare la sera dopo.
Furono debitamente
impressionati, certo. Per circa un paio di secondi, poi uno di loro
si avvicinò e mi appioppò un cartone nello stomaco che mi piegò in
due. Mentre stavo pensando che a) la prossima lezione di difesa
personale avrei dovuto impegnarmi molto di più che b) le mie chance
di uscire di lì con tutte le ossa intere stavano approssimandosi
allo zero, i tipi della security mi afferrarono e mi trascinarono al
piano di sopra, in puro stile poliziesco. Fottuti. Sempre nel
medesimo stile mi sbatterono dentro un ufficio dall’aria fin troppo
elegante per essere il centro amministrativo di un locale rock. Ma in
quel momento non me ne fregava proprio niente dell’arredamento.
Perché se dietro la scrivania c’era un damerino del cazzo,
appoggiata alla scrivania con una delle sue monumentali gambe
toniche, c’era Sabine.
Ed era la prima volta in quella
fottuta indagine che ero contento di vederla.
Il
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