domenica 14 aprile 2013

Hoodlum e il lato oscuro e altri racconti: sample


Come già annunciato, ecco qui dei sample estratti da Hoodlum e il lato oscuro e altri racconti.

Buona lettura!

Hoodlum e il lato oscuro


Mi appoggiai alla ringhiera. Sotto di me si estendeva la città, coperta qua e là da cascami di foschia. La osservai a lungo, come se fosse la prima volta. In una certo senso era proprio così. Avevo sempre pensato di trovarmi in un luogo forse noioso, ma tranquillo, cartesiano, logico. Invece le scoperte degli ultimi giorni mi avevano fatto capire che sotto quell’apparenza tranquilla e paciosa in realtà si nascondeva una realtà labirintica, oscura. Ma forse c’era una corrispondenza biunivoca tra l’apparenza e la realtà, forse era proprio perché la noia e la monotonia regnavano sovrane che certe cose potevano continuare ad accadere nella più completa impunità. O forse, ma qui si entrava nel terreno accidentato della paranoia, forse qualcuno aveva tutto l’interesse che questo stato di cose venisse mantenuto, forse dietro a quello che avevo scoperto c’era persino un piano, o un grande vecchio che tirava le fila di quella decadenza di provincia, ancora più disgustosa di quella delle metropoli, o almeno così pensavo in quel momento…
Ma forse è meglio che cominci dall’inizio…

Se uno avesse voluto mettere insieme un gruppo rock in quei ultimi giorni di liceo, verso la metà degli anni Novanta, aveva la possibilità di scegliere fra tre tipi di persone: quelli che avevano studiato violino fino al giorno prima, che poi per chissà quale motivo avevano scoperto il rock ed erano diventati dei virtuosi senza palle, quelli che avevano imparato a suonare la chitarra acustica per fare i coretti da spiaggia, e gli esaltati che avevano scoperto l’heavy metal perché in quei giorni andava di moda, quindi si erano comprati un’attrezzatura all’ultimo grido per poi limitarsi a guardarla perché non avevano la minima idea di come si suonasse una nota.
E poi c’ero io. A me non fregava molto del discorso rock alla moda, non avevo studiato musica classica né avevo imparato a suonare l’acustica. Solo, io scrivevo testi e poi avevo scoperto che ero in grado di metterci su una linea melodica con l’ausilio di una vecchia chitarra che se non altro era un’elettrica, il tutto con gran gusto. Solo che un bel gioco dura poco, e un giorno mi era  venuta voglia di sentirle suonate da un vero gruppo, ‘ste fottute canzoni. E poi c’era il discorso cantante, ma adesso sto esagerando con la velocità. Fatto sta che in quei ultimi giorni di scuola, al di là di quella seccatura senza importanza dell’esame di maturità, avevo scoperto che un paio di persone della scuola erano coinvolte nella musica, uno si era dato il soprannome di Thug, non chiedetemi perché, l’altro era noto con il nomignolo di Frenzy, anche questo per motivi misteriosi. Uno aveva una discreta dimestichezza con la batteria, l’altro con il basso. Non solo, ma un nostro amico aveva messo su una sala prove comunitaria costituendosi in un’associazione o una cosa così, per cui ci trovammo anche con il posto dove provare. Che il tempo che impiegammo per perfezionare i primi pezzi con il nostro gruppo, che avevamo chiamato King Hoodlum, dal titolo di una canzone che mi piaceva molto, facesse abbassare di un tot il nostro punteggio di uscita dal liceo, non ci sembrava un problema, e di fatto, retrospettivamente, non è che se avessi preso una decina di punti in più a quest’ora avrei avuto più soddisfazioni, per cui, ‘fanculo. Il vero problema era piuttosto che non avevamo nessuno da mettere dietro quel fottuto microfono.
E allora a me venne un’idea che non esito a definire grandiosa: a scuola c’era una tipa, che si chiamava Pamela, che era la fine del mondo. Insomma, era il sogno bagnato di tutta la scuola. Solo che io ero da annoverare in quel 10% della popolazione maschile studentesca che andava oltre questo e prima di arrivare al comune epilogo, di sogni su di lei me ne facevo anche di molto articolati, di una romanticheria da vergognarsi. Che volete, doveva essere la controparte fantasioso-erotica del fatto, ben risaputo tra l’altro, che a tutti i rockettari duri piacciono le ballad romantiche. A me hanno sempre fatto cagare, ero l’unico a skippare quando arrivava Nothing else matters, per cui compensavo con dette fantasticherie. Da vergognarsi, appunto, non fosse stato che la nostra aveva:  aria aristocratica, statura da top model, capelli biondi lisci e in più, specialmente nell’ultimo anno, un look che dava sul rocker andante, proveniente dalla frequentazione saltuaria di tipi un po’ loschi. Per cui mi dissi: perché non chiederle di cantare per noi, rockettari veri ma anche veramente innocui? Egocentriche come sono tutte le donne, figuratevi se si fosse lasciata sfuggire un’occasione del genere, e in questo modo io avrei preso due piccioni con una fava, come si suol dire: da una parte avremmo avuto una signora cantante, dall’altra avrei avuto finalmente la scusa per parlarle, cosa che cercavo di fare da mesi senza venire a capo di niente. Certo, c’era il fatto che non sarei stato solo con lei in sala prove, ma in fondo chi scriveva le canzoni ero io per cui avrei avuto qualche scusa in più per starle vicino. E questa sicuramente era una di quelle fantasie ricorrenti.
E la cosa più divertente fu che in effetti la cosa funzionò. Nella sua scalata verso il successo infatti Pamela aveva preso lezioni di dizione, di portamento, di eleganza e ovviamente di canto. Per cui, anche se l’entusiasmo non era di sicuro la sua dote principale, si decise a darci una chance.
Il fatto  era che effettivamente tra noi e lei, purtroppo solo a livello musicale, si sviluppò ben presto un certo feeling, cosa che per la fine dell’estate avrebbe potuto concretizzarsi in un concerto.
Fu allora che accadde: Pamela scomparve. Ci lasciò privi di una singer a meno di tre giorni dal concerto.
Per questo motivo, dovemmo rinunciare, ma quello che era peggio, noi tre ci trovammo in disaccordo su come reagire a questa situazione antipatica. In sintesi, Thug e Frenzy avrebbero preferito fare finta di niente e cercare un’altra cantante, magari di sesso maschile visto che ormai le donne avevano cominciato ad avere tutte la nomea di tirapacchi. Io invece mi ero incaponito nel riportare Pamela nel gruppo, o quanto meno avere un confronto con lei sul reale motivo per il quale ci aveva dato buca in quel modo. E questo disaccordo crebbe a tal punto che anche i tre rimasero in due: a un certo punto infatti, più o meno verso settembre inoltrato, mi scoprii a passare più tempo a pensare a Pamela che neanche a suonare, anche se continuai a tempo perso con i miei esercizi di scrittura delle canzoni. E questo fu più o meno quanto. Senza contare che da lì a poco sarebbe iniziato un’altra grande seccatura: l’Università. A quanto pareva, la grande fabbrica dei disoccupati avrebbe avuto un’altra vittima. 
E qui, più o meno, inizia la storia vera e propria. 



King Hoodlum

[...]

Ero impressionato. La potenza di fuoco che il gruppo stava sparando fuori era veramente notevole, e bisognava tenere conto che si trattava solo di una prova e che mi trovavo al di là di una spessa porta dotata di pannelli per l’isolamento acustico. Rimasi appoggiato al muro, le mani infilate nelle tasche del mio giubbotto di pelle leggero, attendendo che il frastuono cessasse, poi, quando questo avvenne, bussai e senza attendere risposta, anche perché probabilmente le persone nella sala dovevano essere talmente rintronate che mai avrebbero potuto distinguere il rumore, entrai.
Mi trovai di fronte i soliti quattro paio di occhi gelidi che lo fissavano, era sempre così quando si entrava in una sala prove senza essere stati debitamente invitati, era come entrare in una proprietà privata, in un territorio ben delimitato e a tutti gli effetti era così. Si era sempre considerati degli intrusi, anche se magari chi stava entrando era un executive di un’importante major pronta a offrire al gruppo di turno un contratto discografico multimiliardario. Cosa che, per come era in decadenza, per non dire in putrefazione, il mondo del rock, accadeva sempre più di rado.
Ma tornando a noi, mi presentai come l’editore di una fanzine che aveva in mente un articolo sulle female vocalist e chiesi educatamente se era possibile scambiare qualche parola con la loro cantante.
Una specie di nube temporalesca passò fra i membri del gruppo. Sapevo cosa stavano pensando, e non mi sentii di biasimarli: in effetti in quella città erano state uccise tre ragazze negli ultimi mesi, e in quel momento io potevo essere il killer che aveva inventato un altro modus operandi, ovvero andare a stanare le sue vittime direttamente in sala prove.
Cercando di essere il più possibile innocuo, alzai le mani mostrando le palme in un universale segno di pace e dissi:
“Tranquilli, ragazzi, la porto solo qua fuori alle macchinette del caffè, davvero niente di cui allarmarsi.”
Kira marciò davanti a loro con un passo lento ma elastico e sicuro.
“Avete sentito, ragazzi? Davvero niente di cui allarmarsi.” Poi continuò, rivolta verso di me: “e poi lo sanno anche loro che un piccolo killer di merda non mi mette certo paura, a me.”
Uscimmo insieme dalla sala prove, e devo ammettere che mi sentivo un tantino scombussolato, non mi ero sbagliato nel giudicarla la prima volta che l’aveva vista, se la sua prima impressione era stata che c’era davvero qualcosa in lei che suscitava desideri perversi oltre ogni immaginazione, adesso avrei potuto visionare nella mia mente molti di quei desideri con notevole precisione e senza alcuno sforzo. Dovetti fare forza su me stesso per mantenere un atteggiamento freddo e professionale, mentre lei, come se mi avesse letto nel pensiero, mi rivolse la sua personale versione di un sorriso, un sorrisetto di scherno fatto di piccoli denti che in qualche modo risaltavano come zanne sotto le labbra rosse e sottili. Sempre in ossequio di quell’atteggiamento freddo e professionale, tirai fuori la mia Moleskine nera e una penna e le rivolsi le domande che mi ero preparato, le avevo copiate da una vecchia intervista a Shirley Manson, la cantante dei Garbage, fino a quando non potei rivolgerle le domande che davvero mi interessavano.
“Senti, Kira, come saprai la scena musicale della città è stata attraversata da tre brutali omicidi di cantanti negli ultimi mesi… ti senti spaventata per questa cosa?” La domanda era discretamente imbecille, ma non è che i veri giornalisti fanno molto di meglio.
“Look, devo dire che in parte certo, sono molto spaventata, senza contare che questa cosa ha anche scoraggiato i gestori a far suonare tutti i gruppi dal vivo…”
Già, la stagione non è certo decollata… però in fondo è anche giusto così, no? In fondo nessuno di voi è un professionista e la vecchia regola del The show must go on può ben infrangersi contro un’eccezione fondata su motivi di puro stampo etico…”
Però non mi sembra affatto giusto che la mia libertà personale di esibirmi debba essere limitata da fatti di cronaca.”
Intendi dire che avresti il coraggio di esibirti, insomma.”
Ma certo. Era quello che volevo dire prima… da una parte sono spaventata, però in fondo il pericolo mi eccita anche… senza contare che a dirla tutta…”
A dirla tutta?”
No, niente. Dico solo che il pericolo può aiutare la creatività.”
Senti, cambiando un attimo argomento, cosa facevi prima di entrare in un gruppo rock?”
Mah, niente di particolare, un po’ di associazionismo… poi però ho incontrato una persona meravigliosa che mi ha fatto scoprire la musica…”
Oltre alla droga e la ribellione sociale vuota e violenta, pensai quasi mio malgrado, ripensando all'incontro che io e Gabry avevamo avuto con Netti.
Chi è questa persona? Cioè, se posso chiedere.”
Lei mi scrutò freddamente, per la prima volta.
No, non puoi,” disse in tono secco, poi continuò in modo più gattinesco: “sai, un personaggio pubblico come me vuole mantenere sempre dei segreti.”
Capisco perfettamente. Però senti, Kira, avrei una proposta da farti…”
Sono tutt’orecchi…” 
 
Hoodlum the third

[…]

Beh, in effetti a vederlo da fuori il Factory non era poi tanto male. Si saliva una rampa di scale e ci si trovava di fronte a un edificio scaleno dipinto di rosso e di nero. Quella sera non erano schedulati concerti, tuttavia una lunga fila di ragazzi vestiti nel modo più alternativo possibile, tra cui anche qualche metallaro, faceva bella mostra di sé tutto intorno al locale. Tuttavia, a dir la verità, i metallari erano un po’ pochi, mi sarei aspettato una presenza più massiccia, ma tant’è.
Entrai, andai difilato al bancone e ordinai qualcosa da bere a una cameriera che non aveva niente da invidiare alla presenza fisica di Sabine – alla faccia sua – e cercai di capire come procedere. Mi venne un’ispirazione improvvisa.
Ehi, scusa,” dissi in inglese alla barista, in un momento di calma.
Cosa ti porto?”
Una Coca, però mi servirebbe anche un’informazione.”
Lei mi squadrò in modo neutro, né incoraggiante né ostile, evidentemente lasciando a me la responsabilità di interpretare il suo reale stato d’animo. Dal momento che non avevo altra scelta, mi buttai e chiesi:
Senti, ho risposto un annuncio di un certo Matthias Liebetruth per un posto di chitarrista. Mi aveva dato appuntamento qui, ma non riesco a trovarlo, anche perché non l’ho mai visto…”
E Matthias ti avrebbe dato appuntamento qui…” lei mi rise in faccia, poi disse qualcosa in tedesco che non suonava affatto positivo. Presi la mia Coca e mi spostai, notando nervosamente che la barista aveva persino allertato il buttafuori, che si spostò nella mia direzione.
Merda.
In che cazzo di casino mi stavo cacciando?
Errore.
In che cazzo di casino mi ero già cacciato, visto che il buttafuori mi impedì di muovermi mettendomi un avambraccio grosso come un prosciutto sul petto.
Sei un amico di Matthias Liebentruth, eh?”
Non mi pare una figata poter dire una cosa del genere… ho risposto semplicemente al suo annuncio.”
Non dire balle… è da un bel po’ che il merda non mette piede qui dentro… da quando gli abbiamo interdetto l’ingresso. Quindi la domanda è: tu che cazzo ci fai qui?”
Senti, amico, non è colpa mia se il fottuto si è sbagliato, no? L’appuntamento me l’ha dato qui, ti dico.”
Eh, no, io dico che sei uno di loro. Adesso tu vieni su con me dal capo e la paghi per tutti.”
Non sapevo a che cosa cazzo si stesse riferendo, ma avevo la netta impressione che fosse tempo di passare all’azione, anche perché a me, non so perché, i buttafuori sono sempre stati sul cazzo per definizione. Ringraziando dentro di me la punta d’acciaio dei miei anfibi, e ancor di più il fatto che dopo il mio incontro con i picchiatori del primo episodio mi ero fatto dare delle lezioni di difesa personale, gli picchiai secco e veloce sul ginocchio. E per la famosa regola che più grossi sono più rumore fanno cadendo, il tipo fece appunto parecchio rumore. E a quel punto mi diedi dell’idiota, perché le luci si accesero, la musica si spense, un qualcosa simile a un getto di freon ghiacciato si estese in tutto il Factory, e io mi trovai da solo contro cinque o sei elementi della security di dimensioni uguali e/o superiori a quello che avevo abbattuto. E a quel punto passai al piano B. E sembrò anche funzionare, perché gli esponenti della security del locale sembrarono debitamente impressionati dal fatto che urlai di essere l’advance person dei Rocking Wild, il gruppo che avrebbe dovuto suonare la sera dopo.
Furono debitamente impressionati, certo. Per circa un paio di secondi, poi uno di loro si avvicinò e mi appioppò un cartone nello stomaco che mi piegò in due. Mentre stavo pensando che a) la prossima lezione di difesa personale avrei dovuto impegnarmi molto di più che b) le mie chance di uscire di lì con tutte le ossa intere stavano approssimandosi allo zero, i tipi della security mi afferrarono e mi trascinarono al piano di sopra, in puro stile poliziesco. Fottuti. Sempre nel medesimo stile mi sbatterono dentro un ufficio dall’aria fin troppo elegante per essere il centro amministrativo di un locale rock. Ma in quel momento non me ne fregava proprio niente dell’arredamento. Perché se dietro la scrivania c’era un damerino del cazzo, appoggiata alla scrivania con una delle sue monumentali gambe toniche, c’era Sabine.
Ed era la prima volta in quella fottuta indagine che ero contento di vederla.

Il link dell'opera completa è come sempre: http://www.amazon.it/Hoodlum-oscuro-altri-racconti-ebook/dp/B00BZY9IYY/ref=sr_1_1?s=digital-text&ie=UTF8&qid=1365084263&sr=1-1&keywords=Investigation
 

mercoledì 10 aprile 2013

Straniero in terra straniera



L’altra sera, a causa di un’improvvisa mancanza di film e serie che guardo normalmente, sono capitato su uno di quei nuovi talent show che ultimamente stanno infestando la televisione. Si tratta di “The voice”: un format in cui dei cantanti devono cantare una cover a loro scelta per novanta secondi, dopodichè se nessuno dei quattro giudici, che ascoltano l’esibizione seduti su delle poltrone che danno lo schienale al concorrente, in modo da sentirne solo la voce, preme il bottone incorporato nella poltrona che la fa girare di 180 gradi, significa che non hanno superato la prima selezione. In caso contrario, entrano a far parte della squadra allenata dal giudice che si è girato – se se ne gira più di uno, è invece il concorrente che può scegliere in che squadra entrare.
Dei quattro giudici, tre onestamente non so chi siano, due donne e un uomo comunque (l'uomo assomiglia vagamente a Jörg Michael), il quarto invece lo conosco molto bene: si tratta nientemeno che di Piero Pelù, lo storico leader dei Litfiba, gruppo di cui il giorno dopo ho buttato nelle immondizie tutto il repertorio, che avevo su vecchie cassette, perché non è possibile andare contro in questo modo a tutto quello che si è detto per anni, devo dire però molto supportivo quando si tratta di incoraggiare i cantanti in erba che si avvicendano sul palco, fiero dei suoi atteggiamenti e del suo look, totalmente rock, in parte copiato anche dagli altri giudici, visto che ovviamente a livello quanto meno intuitivo, deve essere il rock a farla da padrone. Capita l’incongruenza? Perché il fatto è che invece per tutta la serata ho potuto assistere a esibizioni di cantanti che, per primeggiare e portare a casa il risultato, dovevano essere per forza molto dotati tecnicamente, quindi con cover che andavano per la più parte dalla musica leggera, al blues al canto jazz, percepiti, a torto, come generi musicali in grado di mettere in mostra eventuali doti canore più che non altri generi. E a questo punto, però, una riflessione sorge spontanea: vi immaginate, in base a questi parametri, quanti cantanti che hanno fatto la storia del rock sarebbero stati mandati a casa? Se dovessi fare dei nomi, potrei sicuramente dire Johnny Rotten, Glenn Danzig, Kurt Cobain, Ozzy Osbourne, Lemmy, James Hetfield e Dave Mustaine e perché no, magari lo stesso Piero Pelù, ossia performer di sicuro impatto, carisma, fascino e riconoscibilità, ma non sicuramente dotati di una voce particolarmente tecnica – e proprio per questo adattissima al rock.
Perché parliamoci chiaro, non si può venir selezionati per cantare rock, si uccide tutto lo spirito: io devo andare a cantare rock perché me la sento, non perché ne sono capace – dopodichè se vi fa cagare la mia voce fottetevi, anzi, tanto meglio. E se pensate che non sia così perché ci sono un sacco di cantanti metal, al di quelli che ho nominato prima, che hanno una tecnica stratosferica, beh, è vero, ce l’hanno eccome, però la usano non per piacere a tutti, e quando lo fanno vengono dichiarati bolliti e obsoleti, ma per fare delle performance in grado di mantenere intatta una carica di aggressività che a molti risulta odiosa – che è invece quella che piace ai rocker. È un po’ il discorso della chitarra: io posso essere un chitarrista tecnicissimo e produrmi in veloci, melodici passaggi classici su una chitarra spagnola, cosa che incanterà moltissimi presenti, oppure suonare violente e brutali ritmiche thrash, un alto tasso tecnico è senz’altro presente anche in questo caso, però i presenti deliziati saranno indubitabilmente molto meno. Per esempio, mi ricordo benissimo di un giorno in cui stavo ascoltando un pezzo heavy a mio parere melodicissimo, e nemmeno a volume alto, quando un non adepto del verbo metallico mi chiese: “ma che cos’è questo casino?” Capito il punto? E non stavo ascoltando i Kreator, erano gli Iron Maiden di Stranger in a strange land   
Insomma, una cosa è sicura: a quanto pare il rock – per non parlare del metal – in televisione proprio non ci può andare. Il fatto è che il rock, nella sue varie accezioni, non può prescindere da ciò che in televisione, specchio fedele della nostra ipocrita e decrepita società non può proprio entrare – ovvero una sottile ma presente carica di provocazione, e guardate che chi scrive è più che mai convinto che anche il rock in fondo sia ipocrita. Ma quando si tratta di fare intrattenimento per la massa, non si riesce proprio a farlo entrare, se non mischiato a generi più accessibili, come ad esempio, l’hip hop.
Però, detto questo, la cosa comincia a mostrarsi in tutta la sua misteriosità. Il vero rock, il metal, con le loro ritmiche fluide e veloci, la chitarra ben presente nel mix, la batteria fragorosa, le distorsioni, le voci ora drammatiche ora sarcastiche, sono generi provocatori, questo è stato detto. Eppure, stabilire esattamente se la provocazione sia in questi fattori, se debba essere sussunta da una somma di questi fattori, oppure da un’altra sorgente ancora, non è affatto facile. In realtà, non è affatto facile neppure capire in che cosa consista questa provocazione, visto che invece in televisione sono più che accettati ben altri attacchi alla morale, se capite cosa intendo. Tuttavia, il dato di base è che quello che la maggior parte della gente dice del metal è: “troppo casino”, per poi magari andare a rimbambirsi con la techno suonata – anzi, no, fatta al computer – da qualche dj impasticcato magari pure convinto di essere un musicista. Oppure si lamentano che non si sentono le parole, mentre invece io quelle rare volte che mi sono imbattuto in una canzone di musica leggera italiana mi sono lamentato proprio per il motivo opposto: che le parole si sentivano, purtroppo.
Vabbeh, ma al di là di battute troppo facili, un’ipotesi su ciò che è questa provocazione la vorrei dare, e credo che la risposta, forse, vada a essere cercata nelle suggestioni working class del rock, mi riferisco ad esempio alle esperienze dei primi gruppi metal inglesi, nati sotto le nuvole di smog della città di Birmingham. Insomma, credo che la provocazione del rock e dell’heavy metal consista in questo, ed è paradossale se si pensa che l’heavy metal sia spesso visto come la controparte sonora della letteratura di genere: un richiamo all’ordine delle cose, una sorta di monito sul fatto che sì, magari adesso siete in uno studio televisivo a guardare ballerine e a sognare di essere milionari, ma domani dovrete tornare nelle strade, sotto un cielo grigio e ostile – ancora più ostile perché mentre eravate impegnati altrimenti, qualcuno di molto potente e molto privo di scrupoli, qualcuno che forse non è nemmeno più umano, ne ha approfittato per arricchirsi un altro po’ alle vostre spalle. Insomma, di paradosso in paradosso: la sottocultura pop come una droga che annebbia le coscienze portandole dritte nelle sabbie mobili delle illusioni borghesi, il rock l’unica strada per ritornare alla realtà. Una realtà dove, come avvertivano i New Model Army di The Charge, il vincolo dell'unità è rotto e le canzoni sulla lealtà sono vuote parole / e ognuno è più che pronto a fottere persino il proprio fratello anche solo per uno sguardo a un pezzo della torta.
È un’ipotesi ragionevole? Forse. O forse le risposte sono altrove, in direzioni che potrebbero portarci in altre aree della problematica. Intanto però, un altro reality è stato trasmesso, la televisione aveva promesso del rock per far sentire solo delle musichette sciape al suo posto, e l’heavy metal, che ha fatto capolino in un’occasione se non sbaglio, è stato quello che doveva essere: uno straniero in terra straniera. Non abbastanza ben risvegliare le coscienze addormentate del pubblico, intento com’era a guardare. A guardare le briciole della torta.


domenica 7 aprile 2013

Give us back the Eighties - anni Ottanta e dintorni

Stavolta, come era già stato annunciato nella presentazione, devo lasciare la parola a un personaggio che, pur vissuto qualche anno dopo, è sempre rimasto, musicalmente e non solo, con i piedi ben piantati nei scintillanti, mitici, sfavillanti anni Ottanta. Vi presento dunque Lloyd, il protagonista del romanzo Lacrime di un Cielo d'Inverno – da non confondere con l'omonimo personaggio dell'omonimo racconto. Confusi? Ehi, non è detto che il processo creativo sia sempre lineare, no? Anzi, direi che è vero proprio il contrario. Va detto però che mentre il romanzo è una cavalcata mainstream sulle avventure di un gruppo metal, il racconto è la trasposizione di un solo concerto di detta band in un mondo fantascientifico, tra salti quantici e multiversi. Ma bando alle ciance: passo senz'altro la parola a Lloyd, nella sua veste di esperto degli anni Ottanta...


Salve a tutti, vi siete ripresi dall'ultimo concerto? Io ancora no, ma spero comunque di riuscire a orchestrare un discorso coerente, soprattutto perché stavolta non voglio parlare di musica, visto che è il mio primo intervento qui su Hoodlum's Rock'n Investigation, ma fare una introduzione generale sugli anni Ottanta, per temi, magari in maniera anche un po' disordinata, partendo dal presupposto che se gli anni Settanta sono stati anni di intenso impegno politico e intellettuale, scanditi dal ritmo di musiche che, seppur generalmente meno tecniche e a mio parere meno affascinanti erano comunque più corrosive e urticanti, gli anni Ottanta sono stati caratterizzati dalla ricerca esasperata dell’esteriorità, dell'epicismo e della grandiosità. Esteriorità, si diceva: come dimenticare ad esempio il fenomeno dell'hair metal, dove spesso contava più il taglio di capelli che non l'assolo di chitarra (ciò non toglie che molti di quei gruppi erano fantastici). Ma in fondo anche il metal tradizionale, nato anche lui negli anni Ottanta, e il di poco più recente thrash coltivavano, nonostante le pretese, soprattutto del secondo, di sobrietà, di una certa volontà di stupire, sia a livello di abbigliamento, tra giubbotti tempestati di borchie, catene, jeans strappati e attillati, sia a livello di scenografie, che a livello di arrangiamenti, con canzoni tecnicamente impegnative e dalle strutture labirintiche e articolate. Non per niente, Mustaine, nel suo libro, lamenta la svolta più sobria e minimale della metà degli anni Novanta, e stiamo parlando di uno che sul palco con i Metallica non faceva altro che sputare sui glamster losangelini. Ma vengono tutti dagli anni Ottanta, e si vede. Ma lasciando il campo della musica, ancora più vicino all'idea di spettacolarizzazione ci sono i film d'azione in genere con massacro finale, cosa che era stata ripresa persino in un fim di fantascienza pura come Aliens scontro finale del '86, c'è la questione dell'eroe fornito di armi micidiali e soprattutto di muscoli – cosa che tra l'altro non corrisponde alla verità, perché i tipi delle Forze Speciali di solito sono atletici ma non muscolosi – i nomi li conoscete. Questa voglia di immagine entrò in tutti i settori della società, e forse viene proprio da lì l'idea, spesso respinta e non capita, di comunicare attraverso l'immagine, la propria immagine. E visto che un'altra cifra, come abbiamo già visto, di quegli anni era l'esagerazione, ecco che si vede diffondersi il body building proprio in quegli anni, e ben presto anche gente comune cominciò ad andare a pomparsi ipertroficamente in palestra – e con gente comune intendo uomini e donne. E questa tematica ottantiana, che a ben vedere, ha in comune con l'heavy metal e con un suo stretto parente, il wrestling, di essere tutt'ora presente ma ben lontano dall'essere mainstream, un concetto che meriterebbe un post a sè, mi offre il destro per partire con un discorso che secondo me è molto interessante, e se vogliamo anche un po' inquietante, che vedremo la prossima volta...



to be continued...

venerdì 5 aprile 2013

Sinossi Hoodlum e il lato oscuro e altre storie

A seguito della pubblicazione di Hoodlum e il lato oscuro su Amazon Kindle, si è pensato di inserire qui le sinossi dei racconti contenuti in questa antologia. Un sample verrà poi pubblicato in seguito. Grazie per l'attenzione!

il vostro,
Hoodlum



Sinossi
Nella prima storia, Hoodlum e il lato oscuro, Hoodlum è un chitarrista alla prese con un grosso problema: la sua cantante, la bellissima Pamela, è scomparsa dalla circolazione proprio alla vigilia del primo concerto del suo gruppo. Arrabbiato per il concerto, ma in realtà anche molto preoccupato, decide di fare qualche domanda nell'ambiente, intento che nel giro di pochissimo lo trascina in quella che si rivela essere un’investigazione in piena regola. Più scava, più si accorge che la piccola città di provincia in cui abita nasconde molti più segreti di quanto possa sembrare a prima vista e che questi segreti coinvolgono personaggi molto in alto nella scala sociale – per quanto all’inizio Pamela sembrava semplicemente essere caduta in qualche giro poco raccomandabile. Fino a quando non si rende conto di aver dato troppe cose per scontate; ma a quel punto lui stesso si trova in una situazione a dir poco pericolosa.
In King Hoodlum l’ambiente musicale della città in cui è andato a studiare Hoodlum è sconvolto da una serie di brutali omicidi. Hoodlum, questa volta, se ne guarderebbe bene dall’indagare, non fosse che una poliziotta sospesa dal servizio lo costringa ad aiutarla. Hoodlum e Gabry si trovano dunque fianco a fianco nelle prime fasi dell’indagine, volta a capire se si trovano di fronte a un serial killer oppure se gli omicidi hanno un movente ben preciso, e quindi chi potrebbe essere il colpevole più probabile. La loro collaborazione dovrà subire un brusco arresto, ma sarà Hoodlum a contattarla quando penserà di aver in mano la carta adatta a inchiodare il colpevole. Ci riuscirà, pur correndo un rischio notevole, ma solo per scoprire a quale livello possono arrivare le connivenze del potere.
In Hoodlum the Third, Rocking Wolf, un personaggio di primissimo piano nella scena hard’n heavy internazionale, chiama Hoodlum per compiere un’indagine interna, riguardo certi sabotaggi accaduti durante il tour che sta compiendo, che in quel momento prevede delle date in Germania. Questa volta Hoodlum accetta con entusiasmo, e mette in campo tutte le sue risorse e le sue conoscenze pregresse riguardo l’organizzazione interna di un rock tour e le moderne tecnologie informatiche nel tentativo di trovare il colpevole. Ma anche questa volta, dopo aver compiuto tutta una serie di avventure a ritmo serrato, come scontrarsi con dei buttafuori di un rock club, essere legato, imbavagliato e rinchiuso in un bagagliaio di una macchina per destinazione ignota, infiltrarsi in una gang di motociclisti teutonici, e beccarsi pure una pallottola in una spalla, scoprirà che bisogna sempre guardarsi le spalle in un’indagine. Anche durante un rock tour.  

Georgia, di Ulu Grosbard (1995)


Georgia è un film indipendente - leggi, mal scritto e mal diretto - che cerca di raccontare la storia di Sadie Flood, una punk rocker che cerca di farcela nel circuito del rock indipendente nei primi anni degli anni Novanta in quel di Seattle, senza avere un grande talento da opporre e per di più impersonando un po’ troppo la vita autodistruttiva di un certo modo di vedere le rockstar – quello più genuino in realtà. Inoltre, la poveretta è la sorella di una cantante country di grande successo.

Insomma i presupposti per una grande storia c’erano un po’ tutti: la vita ai margini, la ricerca del successo svolta in questa sorta di terra di nessuno dove si muovono i gruppi che stanno facendo la gavetta molto probabilmente per non finire mai di farla, il contrasto tra chi il talento ce l’ha e chi non ce l’ha, tra l’altro all’interno della propria famiglia – che comunque non è che in fondo Sadie sia dipinta con una voce molto inferiore a quella della sorella, soltanto ha un registro differente per cui a quel punto se la giocano un po’ alla pari, l’abuso di droga e di alcool, questo un po’ un clichè in realtà.

Che dire, ero molto interessato a vedere questo film, per via di alcune tematiche che  trovo molto stimolanti, ma devo dire che sono rimasto molto deluso. In parte questo è dovuto al fatto che il film fa muovere la trama non tanto sulle scene ma sui dialoghi, in pratica i personaggi vanno e vengono all’interno della storia rivelando quello che sono e quello che fanno dicendoselo a vicenda, spesso in scene totalmente statiche. E quindi anche inquadrature suggestive – l’interno dei locali della provincia americana, le location dei concerti che comunque sono inquadrature storiche, se capite quello che voglio dire – perdono parecchio del loro fascino. In parte per la lentezza, che è anche un po’ la conseguenza di quello che si diceva prima

Telefonata poi la questione della relazione di Sadie con un partner più giovane.

Senza contare che la sorella non vede affatto Sadie come qualcuno schiacciato dal suo talento, ma ne ha un’opinione non del tutto chiara, comportandosi in modo contraddittorio, in parte la teme per la sua autodistruzione, un po’ la commisera, ma senza dipanare esattamente i suoi sentimenti, in modo che il regista non riesce a creare quello che poteva essere interessante, una sorta di binary opposition fra le due cioè: insomma una dinamica dove tutta la forza sta nella parte della tradizionalista sia nella musica che nel look Georgia e tutta la debolezza nella più aggressiva e graffiante Sadie, un po’ questo c’è e un po’ no, e questo non fa acquistare profondità alla storia, ma solo confusione.

E comunque, tutto questo perde interesse nel momento in cui la storia prende una direzione dritta verso il clichè di cui si diceva, quando cioè Sadie, provando e riprovando, riesce quasi a raggiungere quello che cerca, ma se lo fa sfuggire per colpa delle sue dipendenze.

In conclusione, direi che in fondo questo film può mancare anche nella filmografia di un appassionato del genere rock…