“Dovete pagare caro il vostro tentativo di
invasione.”
Yuma si mosse, a disagio, consapevole che
ogni suo gesto veniva osservato attentamente dai molti occhi gelidi davanti a
lei.
“Me ne rendo perfettamente conto”,
rispose, cercando di mantenere i tratti del viso perfettamente immobili, come
le avevano insegnato a fare in situazioni di quel tipo.
“Tuttavia, la punizione potrebbe essere
leggera: ad esempio quella di rimanere per sempre fra di noi, in qualità di
schiavi.”
“ Tuttavia”, disse Yuma di rimando, dando
un tono neutro alla sua voce, “visto che ci siamo batturi con onore contro di
voi, potreste anche lasciarci andare.”
L’uomo che aveva di fronte, evidentemente
il capo, scolò del vino d’un fiato, poi concesse:
“Questo è vero. Siete riusciti a resistere
più del previsto. Per cui, quando stasera ci riuniremo per decidere, anche
questa potrebbe essere un’opzione.
Magari potremmo accontentarci di tenere per noi un ostaggio.”
Yuma annuì, anche se sapeva che, a causa
delle sue responsabilità, essendo l’ufficiale più alto in grado, questo onere
sarebbe sicuramente toccato proprio a lei. Ma, del resto, quel pianeta di fango
e foreste tropicali era l’unico in grado di fornire i preziosi metalli per la
costruzione della navi che dovevano andare a costituire il nucleo della rinata
flotta terrestre. E fare delle
incursioni in profondità era l’unico modo per localizzare i giacimenti più
ricchi. Yuma pensò tristemente ai preziosi macchinari che erano andati
distrutti durante l’assalto della tribù locale: era una perdita molto più
pesante, per lei, che non quella relativa al personale.
I guerrieri li avevano attaccati poche
miglia dopo il primo villaggio che avevano incontrato, stritolandoli senza
alcuno forzo. C’era stata persino una punta di sufficienza nel loro attacco,
come se avessero capito che quel distaccamento avanzato degli invasori
terrestri non poteva rappresentare una seria minaccia. E avevano perfettamente
ragione. Solo per un miracolo tattico di Yuma gli invasori, adesso trasformati
in fuggitivi in rotta, avevano trovato rifugio in una valle dove dovevamo
guardarsi solo da attacchi frontali, ma anche così gli indigeni si erano
fermati e avevano accettato di parlamentare solo per evitarsi delle perdite. In
realtà era una preoccupazione del tutto superflua, visto che Yuma e i suoi
uomini avevano perso tutte le armi pesanti nel primo attacco.
“Ma devo dirle che c’è anche un’altra
opzione”, si interruppe per dare modo a quella che doveva essere la sua
compagna a posare dell’altro vino, o quello che era, sul tavolo, poi continuò:
“domani potremmo anche decidere di attaccare e uccidervi tutti.
Yuma ancora una volta cercò di non dare
alcun segno di debolezza, ma dentro iniziò a sentire una sensazione di paura
attanagliarla dalla testa ai piedi. Anche perché sapeva benissimo che in realtà
i loro catturatori non avevano nessuna intenzione di lasciar andare lei e i
suoi uomini. Erano di gran lunga troppo primitivi per poter raccontare una
bugia in modo tanto abile da essere creduti.
Più tardi, Yuma era nella sua tenda,
cercando di pensare, di trovare una soluzione. I freddi dati che conosceva su
quelle genti continuavano a lampeggiarle nella mente, compresi i particolari
relativi alla loro cultura fiera e selvaggia, pur se improntata su un ideale di
lealtà e onore. L’unica scelta che aveva davanti, se non voleva aspettare il
verdetto, era quella di tentare un’azione di forza, che però contro quei nemici
era palesemente destinata alla sconfitta. Erano degli avversari di gran lunga
troppo forti, e per un motivo molto semplice: per quanto fossero in tutto e per
tutto simili a degli esseri umani, anche se di proporzioni molto grandi,
avevano la particolarità di essere fatti interamente di ferro. Come quegli
esseri riuscissero a muoversi con tutto quel peso era un mistero, da una parte,
e un miracolo di bioingegneria dall’altro. Tanto più che il resto della fauna e
della flora di quel pianeta era più simile ai loro omologhi terrestri, pur
presentando, a livello molecolare, dei legami atomici tipici dei metalli. Ma
interrogativi biologici a parte, la cosa più importante era che era si trattava
di esseri assolutamente invincibili in uno scontro diretto. Nell’anno e mezzo
che era passato dal primo atterraggio della flotta dell’Impero, gli invasori
avevano dovuto scoprire che né le armi da fuoco né i laser erano granché efficaci.
Solo gli esplosivi ad alto potenziale avevano qualche possibilità. Tanto più
che la tecnica di combattimento preferita dagli indigeni, comune sia ai
guerrieri che alle loro donne, era quella, semplice ma efficace, di tendere
degli agguati e di saltare addosso ai nemici, con risultati devastanti. C’era
da dire però che le loro donne lo facevano solo come estrema risorsa, perché
non avevano il permesso di combattere se non per difendersi.
“Posso entrare?”
Yuma si girò di scatto al suono di quella
voce sconosciuta. Si trovò di fronte a uno degli indigeni con cui aveva parlato
nei pomeriggio. Avrebbe dovuto saltare in piedi con un’arma qualsiasi in pugno,
ma soltanto a trovarselo di fronte Yuma si sentiva completamente in balia degli
eventi.
Riuscì però a fare una domanda:
“Sei qui per uccidermi?”
Lui si guardò pigramente intorno. Le
ricordò un leone che avesse ormai intrappolato la preda e che prendesse tempo
prima di sbranarla, ma poi sorrise:
“No, sono qui per proporti un affare.”
IL guerriero si mosse, facendo qualche
passo dentro la tenda, facendo mostra di interessarsi ai vari manufatti
disseminati in giro, un paio di armi da fuoco, un computer, un traduttore
simultaneo, cose di questo genere. Per quanto non prevedesse che l’affare fosse
molto vantaggioso per lei e per i suoi uomini Yuma si sentì costretta a
sollecitare delle ulteriori spiegazioni.
“Sentiamo: di cosa si tratta?”
“Il nostro capo oggi ti ha mentito: non
hanno nessuna intenzione di lasciarvi andare o anche solo di tenervi come
schiavi. Domani vi uccideranno. Non ne sono contenti, noi non uccidiamo per il
puro piacere di farlo, ma è necessario.”
“Beh, questo non devi dirmelo tu. Lo avevo
già capito da sola.”
Il guerriero la guardò un po’ sorpreso, e
anche leggermente contrariato.
“Ecco, lo vedi? Abbiamo bisogno di essere
contaminati dalla vostra decadenza. Non siamo nemmeno capaci di mentire, anche
se abbiamo già cominciato a farlo… cosa che non avremmo mai fatto qualche anno
fa. Questo significa che finiremmo comunque per diventare come voi, per cui
perché non accelerare un po’ il processo? E pensare che molti di noi credono
che ogni atto di resistenza nei confronti dell’Impero ci porti un po’ più
vicino a riprenderci il nostro pianeta...”
“E cosa credi tu, invece?”
“Non l’hai ancora capito? Io credo che se
noi ci lasciassimo assorbire dall’Impero avremmo molti meno fastidi. Anzi,
potremmo anche trovare molto utili alcune delle vostre tecnologie, tecnologie
che adesso noi sogniamo solamente… per non parlare della vostra cultura,
decisamente superiore sotto tutti i
punti di vista. Superiore nel bene e nel male, ovviamente. Per esempio, questo
cosa che il vostro esercito permette a delle femmine di combattere e di
raggiungere persino ruoli di comando la trovo veramente assurda… cosa che
potrebbe cambiare, se anche noi venissimo assorbiti dall’Impero.”
L’uomo sogghignò, un’agghiacciante sorriso
fatto di zanne di metallo, ma Yuma fece finta di non aver sentito. E in un
certo senso era proprio così: le opinioni personali di quell’uomo di ferro non
la riguardavano affatto. Considerò attentamente, invece, quanto le aveva detto
nel suo complesso e trovò che c’era del vero nelle sue parole: in fondo, la
loro vita cosiddetta libera era quella di dei selvaggi ancora allo stato
primitivo, senza nessuna comodità, nessuna vera civiltà. Da quello che avevano
capito, tanto per dirne una, il popolo di ferro non aveva né una letteratura né
una filosofia, né tantomeno una scienza avanzata. Tutte cose, queste, che
avrebbero potuto invece sviluppare se si fossero lasciati conquistare
dall’Impero. Però, anche tutto questo non competeva Yuma, o per lo meno le
competeva solo se l’avesse aiutata a capire come uscire di lì.
Chiese:
“Come farai a portarci fuori dal vostro
territorio?”
L’uomo di ferro si strinse nelle sue
larghe spalle, poi rispose:
“Vedi, io conosco un passaggio che vi
porterà tutti fuori sani e salvi. Ma dobbiamo muoverci in fretta e senza
lasciare qui né armi né bagagli. Il percorso è piuttosto impervio e ci rallenterebbe.”
“Ci?”
“Sì: come ho detto, l’unico modo per
sviluppare la nostra civiltà è quello di farci assorbire da voi. Per questo
verrò con voi, e collaborerò per la conquista del nostro territorio. In
effetti, si sono ben altri segreti, che voi terrestri avete ancora da scoprire,
che potrebbero darvi dei notevoli vantaggi nel distruggere i tentativi di
resistenza del mio popolo. Segreti che però senza un aiuto dall’interno non
riuscireste mai a scoprire.”
Yuma lo osservò a fondo, indecisa se
disprezzarlo per quelle parole, che suonavano ancor più meschine del loro mero
significato in un essere dall’aria così marziale, o se essergli invece grata.
Ancora una volta, scelse la strada dell’assoluta imperturbabilità, chiedendogli
semplicemente:
“E come pensi di riuscirci?”
“Beh, lasciamo prima dire che molti di noi
la pensano come me. Una volta visto il mio esempio, non si tireranno indietro,
e la conquista sarà cosa fatta. Ma adesso l’importante è di portarvi in salvo.”
Qualche ora dopo, in un’alba dai colori alieni,
Yuma uscì per distribuire gli ordini. Il guerriero, una volta finito di esporle
il suo piano, era tornato indietro nell’accampamento degli uomini di ferro,
perché non si notasse la sua assenza, ma le aveva promesso che si sarebbe fatto
trovare vicino alla sua tenda un’ora prima dell’alba Radunò i soldati rimasti,
non più di una decina, in fondo alla piccola valle che li aveva protetto da
eventuali attacchi alle spalle. C’era un solo problema: il guerriero non si
vedeva da nessuna parte. Yuma si guardò intorno, chiedendosi che cosa avrebbe
dovuto fare se fossero stati traditi a loro volta. Improvvisamente le venne da
pensare che forse era tutto un piano ben congegnato per spacciarli
definitivamente in un modo imprevedibile, e che forse quindi quegli esseri di
metallo non erano poi così ingenui come sembravano, cosa che la portava a tutta
una serie di riflessioni molto sgradevoli, ma poi il gigante di ferro apparve,
preceduto da un basso fischio ringhiante, da un sentiero nascosto fra rovi e
cespugli, facendo loro segno di seguirlo lungo quella strada. In realtà,
avrebbero potuto anche vederlo prima, ma nessuno di loro avrebbe potuto sapere
se li avrebbe poi portati alla salvezza o no.
Con il cuore in gola, seguirono il gigante
di ferro lungo lo stretto sentiero, lasciando indietro quel poco di
equipaggiamento che avevano salvato durante la prima battaglia. In effetti
pareva proprio che dopo aver percorso un centinaio di metri nel ventre della
montagna, il sentiero si orientasse verso ovest, quindi in direzione della
frontiera. Ma una sensazione di insicurezza dovuta al dubbio di non aver poi
previsto davvero tutto, non l’abbandonò mai del tutto, nemmeno quando si
trovarono alla fine del sentiero, a pochi chilometri dalla frontiera e quindi
dalla salvezza. Si dissolse soltanto quando raggiunsero un terreno
completamente allo scoperto dove si accorse che là dove il sentiero si apriva
su un piccolo altopiano, ad attenderli c’erano gli altri guerrieri di ferro,
quelli che li avevano distrutti il pomeriggio prima.
Yuma fece un gesto ai suoi uomini,
imponendo loro di non combattere e anzi di rimanere perfettamente immobili, in
modo da lasciare che i guerrieri di metallo li facessero prigionieri. Anche
perché tanto, se i loro avversari avessero deciso di attaccare, lei e i suoi
non avrebbero avuto comunque la minima possibilità. Yuma guardò dritto negli
occhi il capo dei guerrieri, sentendo il suo cuore di acciaio batterle forte
nel petto fatto di metallo, di materiali plastici ad alta resistenza e di
resine polimeriche. Sì, perché in realtà anche Yuma era fatta quasi interamente
di metallo, solo che lei era stata costruita in quel modo dalla tecnologia
bellica dell’Impero, non dalla spinta evolutiva di una natura violenta e
ostile. Immobile, Yuma si scoprì a chiedersi quanto le finte emozioni di paura
e di angoscia che aveva provato nel corso di quella missione fossero simili a
quelle che provavano gli esseri umani e forse anche quei giganti di ferro.
Strano, in teoria Yuma, o meglio, Y.U.M.A. 558, non avrebbe dovuto porsi
domande che esulassero dal contesto contingente in cui volta per volta si
trovava ad agire, ma le fabbriche specializzate nella fabbricazione dei robot
lasciavano sempre un margine di casualità quando si trattava di programmare il
carattere di uno dei loro prodotti.
Mentre il traditore venne circondato da
cinque guerrieri e fu costretto a inginocchiarsi, il capo dei guerrieri si
avvicinò e disse in tono solenne:
“È con grande dolore che mi rendo conto
che le tue parole erano veritiere. Questo proprio non me lo sarei mai
aspettato, nemmeno nei miei sogni più oscuri… che uno dei miei guerrieri mi
tradisse, che tradisse tutti noi per inseguire il sogno del lusso e della
decadenza dell’Impero Terrestre. E devo a te, donna di metallo dell’Impero, se
questo tradimento non si sia compiuto fino in fondo.”
“ Che cosa?”, urlò il guerriero in
ginocchio. – Tu, sei stata tu…”
Il guerriero cercò di alzarsi in piedi,
con un ruggito agghiacciante, ma fu costretto a rimanere dov’era dagli uomini
di ferro che lo circondavano. E rimase in ginocchio, ma prese a colpire la
terra con gli enormi pugni contratti, emettendo un basso brontolio
inintelligibile. Yuma gli concesse appena uno sguardo. In cuor suo, provò
persino una vaga fitta di invidia, sempre che i dati che in quel momento
scorrevano nella sua coscienza cibernetica potessero davvero essere chiamati in
quel modo, nel riconoscere che sì, quegli esseri di ferro provavano davvero
delle emozioni. Poi il capo prese ancora la parola:
“Naturalmente non sappiamo come mai sei
venuta da noi per denunciare le intenzioni di questo traditore. La nostra mente
è troppo semplice per capire fino in fondo le vere intenzioni di un essere con
la brama di potere e di conquista tipica della razza umana, sentimenti che la
razza umana riesce a instillare anche nei cuori di un essere artificiale come
te”, disse “ma non abbastanza per non aspettarci che ci potranno essere delle
conseguenze per noi deleterie.”
Si interruppe, per guardare a sua volta
Yuma dritto negli occhi. Questa sostenne lo sguardo, anche se si sentiva
veramente sconcertata: non pensava che quegli esseri sapessero dell’esistenza
dei robot, e invece il capo aveva voluto rivelarle che sapeva della sua vera
natura. Decisamente, quegli esseri di metallo avevano delle capacità notevoli,
più di quanto lei e i suoi capi avessero supposto. Comunque, se il capo si era
atteso una reazione da parte di Yuma a quelle parole rimase deluso, e così
continuò dicendo:
“Eppure non possiamo venir meno alla
nostra parola: tu e i tuoi uomini siete liberi di andare. Ma prima, c’è un
ultimo compito da affrontare.”
Y.U.M.A. 558 rimase a osservare l’esercito
di metallo che si allontanava nella bruma violacea, cercando di allontanare il
senso di disagio. Si fece forza pensando che, in realtà, le parole del capo
erano state veritiere: in un certo senso, davvero ci sarebbero stati degli
effetti deleteri per il popolo di ferro dopo quel giorno. Deleteri e forse
anche esiziali.
Ripensò agli avvenimenti delle ultime ore.
Il fatto era che a Yuma il tradimento del guerriero aveva dato parecchio da
pensare. Aveva deciso pertanto di seguirlo nelle tenebre quando lui era tornato
al campo per non fare notare la sua assenza, e aveva spiegato tutto al capo dei
guerrieri. In cambio, però, aveva preteso un salvacondotto per lei e per i suoi
uomini. Ma non l’aveva fatto per una sorta di fedeltà robotica all’Impero
Terrestre, pur essendo questo un tratto che era stato inserito nei suoi programmi
comportamentali. No, la vera ragione della sua delazione era stata un’altra: se
davvero uno o più di quei guerrieri di metallo fossero passati in forza
dell’Impero Terrestre, sempre di più del loro popolo li avrebbero seguiti, fino
al punto in cui non ci sarebbe stato più spazio per gli esseri artificiali come
lei. Molto meglio riuscire ad arginare quel rischio o quantomeno a dilazionarlo
nel tempo, come aveva fatto.
E non solo. Yuma, prima di girare sui
tacchi e di seguire i suoi uomini sulla strada per la frontiera, scoccò un
ultimo sguardo all’esoscheletro di metallo ancora fumante che era quanto
rimaneva del guerriero traditore. Aveva altresì scoperto che la composizione
biologica di quegli esseri era simile a quella degli insetti, con la struttura
di metallo che era una sorta di scheletro esterno: già questo avrebbe potuto
rappresentare un passo in avanti significativo per quella guerra. In più, aveva
potuto assistere in prima fila all’esecuzione del traditore, avvenuta quando il
capo in persona si era fatto consegnare un’arma simile a una pistola dalla
canna molto allungata e l’aveva usata per giustiziare il traditore,
puntandogliela alla nuca e provocandone l’immediata uccisione.
Certo, sarebbe stato difficile capire di
che cosa si trattava, ma almeno sapevano che esisteva un’arma letale per quegli
esseri di metallo. D’altra parte, era spiacevole pensare che avessero a
disposizione una tecnologia più avanzata del previsto, ma c’era sempre lei a condurre la guerra contro di
loro ed era sempre meglio non sottovalutare un robot. In particolare, come quel
guerriero aveva scoperto a sue spese, quando si trattava di un robot dai tratti
femminili.
[1] Racconto precedemente apparso sull’antologia di racconti brevi Nasf
sesta edizione.