venerdì 31 maggio 2013

Cuore d’acciaio[1]




“Dovete pagare caro il vostro tentativo di invasione.”
Yuma si mosse, a disagio, consapevole che ogni suo gesto veniva osservato attentamente dai molti occhi gelidi davanti a lei.
“Me ne rendo perfettamente conto”, rispose, cercando di mantenere i tratti del viso perfettamente immobili, come le avevano insegnato a fare in situazioni di quel tipo.
“Tuttavia, la punizione potrebbe essere leggera: ad esempio quella di rimanere per sempre fra di noi, in qualità di schiavi.”
“ Tuttavia”, disse Yuma di rimando, dando un tono neutro alla sua voce, “visto che ci siamo batturi con onore contro di voi, potreste anche lasciarci andare.”
L’uomo che aveva di fronte, evidentemente il capo, scolò del vino d’un fiato, poi concesse:
“Questo è vero. Siete riusciti a resistere più del previsto. Per cui, quando stasera ci riuniremo per decidere, anche questa potrebbe essere un’opzione.  Magari potremmo accontentarci di tenere per noi un ostaggio.”
Yuma annuì, anche se sapeva che, a causa delle sue responsabilità, essendo l’ufficiale più alto in grado, questo onere sarebbe sicuramente toccato proprio a lei. Ma, del resto, quel pianeta di fango e foreste tropicali era l’unico in grado di fornire i preziosi metalli per la costruzione della navi che dovevano andare a costituire il nucleo della rinata flotta terrestre. E  fare delle incursioni in profondità era l’unico modo per localizzare i giacimenti più ricchi. Yuma pensò tristemente ai preziosi macchinari che erano andati distrutti durante l’assalto della tribù locale: era una perdita molto più pesante, per lei, che non quella relativa al personale.
I guerrieri li avevano attaccati poche miglia dopo il primo villaggio che avevano incontrato, stritolandoli senza alcuno forzo. C’era stata persino una punta di sufficienza nel loro attacco, come se avessero capito che quel distaccamento avanzato degli invasori terrestri non poteva rappresentare una seria minaccia. E avevano perfettamente ragione. Solo per un miracolo tattico di Yuma gli invasori, adesso trasformati in fuggitivi in rotta, avevano trovato rifugio in una valle dove dovevamo guardarsi solo da attacchi frontali, ma anche così gli indigeni si erano fermati e avevano accettato di parlamentare solo per evitarsi delle perdite. In realtà era una preoccupazione del tutto superflua, visto che Yuma e i suoi uomini avevano perso tutte le armi pesanti nel primo attacco.
“Ma devo dirle che c’è anche un’altra opzione”, si interruppe per dare modo a quella che doveva essere la sua compagna a posare dell’altro vino, o quello che era, sul tavolo, poi continuò: “domani potremmo anche decidere di attaccare e uccidervi tutti.
Yuma ancora una volta cercò di non dare alcun segno di debolezza, ma dentro iniziò a sentire una sensazione di paura attanagliarla dalla testa ai piedi. Anche perché sapeva benissimo che in realtà i loro catturatori non avevano nessuna intenzione di lasciar andare lei e i suoi uomini. Erano di gran lunga troppo primitivi per poter raccontare una bugia in modo tanto abile da essere creduti.

Più tardi, Yuma era nella sua tenda, cercando di pensare, di trovare una soluzione. I freddi dati che conosceva su quelle genti continuavano a lampeggiarle nella mente, compresi i particolari relativi alla loro cultura fiera e selvaggia, pur se improntata su un ideale di lealtà e onore. L’unica scelta che aveva davanti, se non voleva aspettare il verdetto, era quella di tentare un’azione di forza, che però contro quei nemici era palesemente destinata alla sconfitta. Erano degli avversari di gran lunga troppo forti, e per un motivo molto semplice: per quanto fossero in tutto e per tutto simili a degli esseri umani, anche se di proporzioni molto grandi, avevano la particolarità di essere fatti interamente di ferro. Come quegli esseri riuscissero a muoversi con tutto quel peso era un mistero, da una parte, e un miracolo di bioingegneria dall’altro. Tanto più che il resto della fauna e della flora di quel pianeta era più simile ai loro omologhi terrestri, pur presentando, a livello molecolare, dei legami atomici tipici dei metalli. Ma interrogativi biologici a parte, la cosa più importante era che era si trattava di esseri assolutamente invincibili in uno scontro diretto. Nell’anno e mezzo che era passato dal primo atterraggio della flotta dell’Impero, gli invasori avevano dovuto scoprire che né le armi da fuoco né i laser erano granché efficaci. Solo gli esplosivi ad alto potenziale avevano qualche possibilità. Tanto più che la tecnica di combattimento preferita dagli indigeni, comune sia ai guerrieri che alle loro donne, era quella, semplice ma efficace, di tendere degli agguati e di saltare addosso ai nemici, con risultati devastanti. C’era da dire però che le loro donne lo facevano solo come estrema risorsa, perché non avevano il permesso di combattere se non per difendersi.
“Posso entrare?”
Yuma si girò di scatto al suono di quella voce sconosciuta. Si trovò di fronte a uno degli indigeni con cui aveva parlato nei pomeriggio. Avrebbe dovuto saltare in piedi con un’arma qualsiasi in pugno, ma soltanto a trovarselo di fronte Yuma si sentiva completamente in balia degli eventi.
Riuscì però a fare una domanda:
“Sei qui per uccidermi?”
Lui si guardò pigramente intorno. Le ricordò un leone che avesse ormai intrappolato la preda e che prendesse tempo prima di sbranarla, ma poi sorrise:
“No, sono qui per proporti un affare.”
IL guerriero si mosse, facendo qualche passo dentro la tenda, facendo mostra di interessarsi ai vari manufatti disseminati in giro, un paio di armi da fuoco, un computer, un traduttore simultaneo, cose di questo genere. Per quanto non prevedesse che l’affare fosse molto vantaggioso per lei e per i suoi uomini Yuma si sentì costretta a sollecitare delle ulteriori spiegazioni.
“Sentiamo: di cosa si tratta?”
“Il nostro capo oggi ti ha mentito: non hanno nessuna intenzione di lasciarvi andare o anche solo di tenervi come schiavi. Domani vi uccideranno. Non ne sono contenti, noi non uccidiamo per il puro piacere di farlo, ma è necessario.”
“Beh, questo non devi dirmelo tu. Lo avevo già capito da sola.”
Il guerriero la guardò un po’ sorpreso, e anche leggermente contrariato.
“Ecco, lo vedi? Abbiamo bisogno di essere contaminati dalla vostra decadenza. Non siamo nemmeno capaci di mentire, anche se abbiamo già cominciato a farlo… cosa che non avremmo mai fatto qualche anno fa. Questo significa che finiremmo comunque per diventare come voi, per cui perché non accelerare un po’ il processo? E pensare che molti di noi credono che ogni atto di resistenza nei confronti dell’Impero ci porti un po’ più vicino a riprenderci il nostro pianeta...”
“E cosa credi tu, invece?”
“Non l’hai ancora capito? Io credo che se noi ci lasciassimo assorbire dall’Impero avremmo molti meno fastidi. Anzi, potremmo anche trovare molto utili alcune delle vostre tecnologie, tecnologie che adesso noi sogniamo solamente… per non parlare della vostra cultura, decisamente superiore  sotto tutti i punti di vista. Superiore nel bene e nel male, ovviamente. Per esempio, questo cosa che il vostro esercito permette a delle femmine di combattere e di raggiungere persino ruoli di comando la trovo veramente assurda… cosa che potrebbe cambiare, se anche noi venissimo assorbiti dall’Impero.”
L’uomo sogghignò, un’agghiacciante sorriso fatto di zanne di metallo, ma Yuma fece finta di non aver sentito. E in un certo senso era proprio così: le opinioni personali di quell’uomo di ferro non la riguardavano affatto. Considerò attentamente, invece, quanto le aveva detto nel suo complesso e trovò che c’era del vero nelle sue parole: in fondo, la loro vita cosiddetta libera era quella di dei selvaggi ancora allo stato primitivo, senza nessuna comodità, nessuna vera civiltà. Da quello che avevano capito, tanto per dirne una, il popolo di ferro non aveva né una letteratura né una filosofia, né tantomeno una scienza avanzata. Tutte cose, queste, che avrebbero potuto invece sviluppare se si fossero lasciati conquistare dall’Impero. Però, anche tutto questo non competeva Yuma, o per lo meno le competeva solo se l’avesse aiutata a capire come uscire di lì.
Chiese:
“Come farai a portarci fuori dal vostro territorio?”
L’uomo di ferro si strinse nelle sue larghe spalle, poi rispose:
“Vedi, io conosco un passaggio che vi porterà tutti fuori sani e salvi. Ma dobbiamo muoverci in fretta e senza lasciare qui né armi né bagagli. Il percorso è piuttosto impervio e ci rallenterebbe.”
“Ci?”
“Sì: come ho detto, l’unico modo per sviluppare la nostra civiltà è quello di farci assorbire da voi. Per questo verrò con voi, e collaborerò per la conquista del nostro territorio. In effetti, si sono ben altri segreti, che voi terrestri avete ancora da scoprire, che potrebbero darvi dei notevoli vantaggi nel distruggere i tentativi di resistenza del mio popolo. Segreti che però senza un aiuto dall’interno non riuscireste mai a scoprire.”
Yuma lo osservò a fondo, indecisa se disprezzarlo per quelle parole, che suonavano ancor più meschine del loro mero significato in un essere dall’aria così marziale, o se essergli invece grata. Ancora una volta, scelse la strada dell’assoluta imperturbabilità, chiedendogli semplicemente:
“E come pensi di riuscirci?”
“Beh, lasciamo prima dire che molti di noi la pensano come me. Una volta visto il mio esempio, non si tireranno indietro, e la conquista sarà cosa fatta. Ma adesso l’importante è di portarvi in salvo.”

Qualche ora dopo, in un’alba dai colori alieni, Yuma uscì per distribuire gli ordini. Il guerriero, una volta finito di esporle il suo piano, era tornato indietro nell’accampamento degli uomini di ferro, perché non si notasse la sua assenza, ma le aveva promesso che si sarebbe fatto trovare vicino alla sua tenda un’ora prima dell’alba Radunò i soldati rimasti, non più di una decina, in fondo alla piccola valle che li aveva protetto da eventuali attacchi alle spalle. C’era un solo problema: il guerriero non si vedeva da nessuna parte. Yuma si guardò intorno, chiedendosi che cosa avrebbe dovuto fare se fossero stati traditi a loro volta. Improvvisamente le venne da pensare che forse era tutto un piano ben congegnato per spacciarli definitivamente in un modo imprevedibile, e che forse quindi quegli esseri di metallo non erano poi così ingenui come sembravano, cosa che la portava a tutta una serie di riflessioni molto sgradevoli, ma poi il gigante di ferro apparve, preceduto da un basso fischio ringhiante, da un sentiero nascosto fra rovi e cespugli, facendo loro segno di seguirlo lungo quella strada. In realtà, avrebbero potuto anche vederlo prima, ma nessuno di loro avrebbe potuto sapere se li avrebbe poi portati alla salvezza o no.
Con il cuore in gola, seguirono il gigante di ferro lungo lo stretto sentiero, lasciando indietro quel poco di equipaggiamento che avevano salvato durante la prima battaglia. In effetti pareva proprio che dopo aver percorso un centinaio di metri nel ventre della montagna, il sentiero si orientasse verso ovest, quindi in direzione della frontiera. Ma una sensazione di insicurezza dovuta al dubbio di non aver poi previsto davvero tutto, non l’abbandonò mai del tutto, nemmeno quando si trovarono alla fine del sentiero, a pochi chilometri dalla frontiera e quindi dalla salvezza. Si dissolse soltanto quando raggiunsero un terreno completamente allo scoperto dove si accorse che là dove il sentiero si apriva su un piccolo altopiano, ad attenderli c’erano gli altri guerrieri di ferro, quelli che li avevano distrutti il pomeriggio prima.
Yuma fece un gesto ai suoi uomini, imponendo loro di non combattere e anzi di rimanere perfettamente immobili, in modo da lasciare che i guerrieri di metallo li facessero prigionieri. Anche perché tanto, se i loro avversari avessero deciso di attaccare, lei e i suoi non avrebbero avuto comunque la minima possibilità. Yuma guardò dritto negli occhi il capo dei guerrieri, sentendo il suo cuore di acciaio batterle forte nel petto fatto di metallo, di materiali plastici ad alta resistenza e di resine polimeriche. Sì, perché in realtà anche Yuma era fatta quasi interamente di metallo, solo che lei era stata costruita in quel modo dalla tecnologia bellica dell’Impero, non dalla spinta evolutiva di una natura violenta e ostile. Immobile, Yuma si scoprì a chiedersi quanto le finte emozioni di paura e di angoscia che aveva provato nel corso di quella missione fossero simili a quelle che provavano gli esseri umani e forse anche quei giganti di ferro. Strano, in teoria Yuma, o meglio, Y.U.M.A. 558, non avrebbe dovuto porsi domande che esulassero dal contesto contingente in cui volta per volta si trovava ad agire, ma le fabbriche specializzate nella fabbricazione dei robot lasciavano sempre un margine di casualità quando si trattava di programmare il carattere di uno dei loro prodotti.
Mentre il traditore venne circondato da cinque guerrieri e fu costretto a inginocchiarsi, il capo dei guerrieri si avvicinò e disse in tono solenne:
“È con grande dolore che mi rendo conto che le tue parole erano veritiere. Questo proprio non me lo sarei mai aspettato, nemmeno nei miei sogni più oscuri… che uno dei miei guerrieri mi tradisse, che tradisse tutti noi per inseguire il sogno del lusso e della decadenza dell’Impero Terrestre. E devo a te, donna di metallo dell’Impero, se questo tradimento non si sia compiuto fino in fondo.”
“ Che cosa?”, urlò il guerriero in ginocchio. – Tu, sei stata tu…”
Il guerriero cercò di alzarsi in piedi, con un ruggito agghiacciante, ma fu costretto a rimanere dov’era dagli uomini di ferro che lo circondavano. E rimase in ginocchio, ma prese a colpire la terra con gli enormi pugni contratti, emettendo un basso brontolio inintelligibile. Yuma gli concesse appena uno sguardo. In cuor suo, provò persino una vaga fitta di invidia, sempre che i dati che in quel momento scorrevano nella sua coscienza cibernetica potessero davvero essere chiamati in quel modo, nel riconoscere che sì, quegli esseri di ferro provavano davvero delle emozioni. Poi il capo prese ancora la parola:
“Naturalmente non sappiamo come mai sei venuta da noi per denunciare le intenzioni di questo traditore. La nostra mente è troppo semplice per capire fino in fondo le vere intenzioni di un essere con la brama di potere e di conquista tipica della razza umana, sentimenti che la razza umana riesce a instillare anche nei cuori di un essere artificiale come te”, disse “ma non abbastanza per non aspettarci che ci potranno essere delle conseguenze per noi deleterie.”
Si interruppe, per guardare a sua volta Yuma dritto negli occhi. Questa sostenne lo sguardo, anche se si sentiva veramente sconcertata: non pensava che quegli esseri sapessero dell’esistenza dei robot, e invece il capo aveva voluto rivelarle che sapeva della sua vera natura. Decisamente, quegli esseri di metallo avevano delle capacità notevoli, più di quanto lei e i suoi capi avessero supposto. Comunque, se il capo si era atteso una reazione da parte di Yuma a quelle parole rimase deluso, e così continuò dicendo:
“Eppure non possiamo venir meno alla nostra parola: tu e i tuoi uomini siete liberi di andare. Ma prima, c’è un ultimo compito da affrontare.”
Y.U.M.A. 558 rimase a osservare l’esercito di metallo che si allontanava nella bruma violacea, cercando di allontanare il senso di disagio. Si fece forza pensando che, in realtà, le parole del capo erano state veritiere: in un certo senso, davvero ci sarebbero stati degli effetti deleteri per il popolo di ferro dopo quel giorno. Deleteri e forse anche esiziali.
Ripensò agli avvenimenti delle ultime ore. Il fatto era che a Yuma il tradimento del guerriero aveva dato parecchio da pensare. Aveva deciso pertanto di seguirlo nelle tenebre quando lui era tornato al campo per non fare notare la sua assenza, e aveva spiegato tutto al capo dei guerrieri. In cambio, però, aveva preteso un salvacondotto per lei e per i suoi uomini. Ma non l’aveva fatto per una sorta di fedeltà robotica all’Impero Terrestre, pur essendo questo un tratto che era stato inserito nei suoi programmi comportamentali. No, la vera ragione della sua delazione era stata un’altra: se davvero uno o più di quei guerrieri di metallo fossero passati in forza dell’Impero Terrestre, sempre di più del loro popolo li avrebbero seguiti, fino al punto in cui non ci sarebbe stato più spazio per gli esseri artificiali come lei. Molto meglio riuscire ad arginare quel rischio o quantomeno a dilazionarlo nel tempo, come aveva fatto.
E non solo. Yuma, prima di girare sui tacchi e di seguire i suoi uomini sulla strada per la frontiera, scoccò un ultimo sguardo all’esoscheletro di metallo ancora fumante che era quanto rimaneva del guerriero traditore. Aveva altresì scoperto che la composizione biologica di quegli esseri era simile a quella degli insetti, con la struttura di metallo che era una sorta di scheletro esterno: già questo avrebbe potuto rappresentare un passo in avanti significativo per quella guerra. In più, aveva potuto assistere in prima fila all’esecuzione del traditore, avvenuta quando il capo in persona si era fatto consegnare un’arma simile a una pistola dalla canna molto allungata e l’aveva usata per giustiziare il traditore, puntandogliela alla nuca e provocandone l’immediata uccisione.
Certo, sarebbe stato difficile capire di che cosa si trattava, ma almeno sapevano che esisteva un’arma letale per quegli esseri di metallo. D’altra parte, era spiacevole pensare che avessero a disposizione una tecnologia più avanzata del previsto, ma c’era  sempre lei a condurre la guerra contro di loro ed era sempre meglio non sottovalutare un robot. In particolare, come quel guerriero aveva scoperto a sue spese, quando si trattava di un robot dai tratti femminili.




[1] Racconto precedemente apparso sull’antologia di racconti brevi Nasf sesta edizione. 

martedì 28 maggio 2013

Velocità, lentezze e temperie culturali [1]



I battiti per minuto (bpm) sono una unità di misura di frequenza, utilizzata principalmente per l'indicazione metronomica in musica.
I
Nel 1976 o giù di lì, in quel di Londra, si sarebbe potuto assistere al concerto di quattro loschi figuri che sotto il nome di Sex Pistols suonavano un pezzo rock minimale ma coinvolgente che passerà alla storia con la denominazione di punk rock dal titolo Anarchy in the UK, mentre la stampa conservatrice e progressista[2], per una volta – forse – unite si stracciavano le vesti urlando allo scandalo e tra le elite al potere c’era chi stava (ri)cominciando a spaventarsi. Il metronomo in quell’occasione era settato sui 135 bpm.
Più tardi, verso il 1980, un gruppo di figuri altrettanto loschi, sempre a Londra, suonava un pezzo dal titolo Iron Maiden – dal vivo spesso «Iron Maggie» – e non so se vi ricordate chi governava l’Inghilterra all’epoca. In quel caso, ovviamente, la musica non era punk rock ma heavy metal, una forma molto più sofisticata e portatrice di tematiche, alle volte colte. E il metronomo segnava i 206 bpm, per arrivare ai 264 bpm dodici anni dopo. In realtà simili velocità le avevano raggiunte molto prima, ma qui il pezzo è Be quick or be dead, descrizione della vita dei giovani dell’epoca alle prese con il mondo liberista britannico. Be quick, tanto per rimanere in tema. 
Margaret Thatcher RIP: gli Iron Maiden la volevano morta fin dal 1980Qualche anno più tardi, verso l’89, un altro gruppo, Megadeth, cantava una canzone dal titolo Holy wars a 168 bpm, questa volta però alternando ottavi e sedicesimi. Sulla west coast statunitense l’heavy metal era infatti progredito per diventare thrash metal, con il quadrilatero rappresentato da Metallica, Megadeth, Anthrax – questi ultimi tuttavia newyorkesi – e Slayer. Tematiche forti, spesso a sfondo sociale, con velocità settate sopra i 150 bpm, spesso in sedicesimi, cosa che di fatto raddoppia la velocità dei riff chitarristici. E tutti questi gruppi sono stati presi di mira dal Pmrc, comitato di parruccone presieduto da Tipper Gore…
E poi gruppi che andavano oltre, 232, 250, 264 (in sedicesimi) più o meno fino all’avvento del grunge. Lì la musica rock prende due strade diverse, lasciando stare i vari generi o sottogeneri: o un generale rallentamento, e rimane mainstream, oppure se di velocità si tratta parliamo di una velocità che è per pochi, per gli appassionati, che si chiudono per forza di cose nel loro settore, un settore, ricordiamolo, che continua a preferire l’uso direi semantico della velocità e dell’aggressione per veicolare dei contenuti altrettanto brutali e d’impatto.
Velocità e aggressione, si diceva: bene, l’una non implica per forza l’altra, ma è anche vero che la velocità è proprio uno degli strumenti a disposizione del musicista metal per suonare metal: è risaputo da chiunque abbia suonato in una rock band che spesso basta suonare un pezzo a velocità più bassa per trasformare un violento pezzo metal in un più addomesticato brano rock.

II
Che cosa si vuole dimostrare con questa breve carrellata di istantanee scelte un po’ a caso? L’idea di fondo è che la musica dagli anni Cinquanta in avanti ha spostato i parametri di velocità e aggressione sempre più verso l’alto e, di conseguenza, anche l’immagine e i testi soggiacenti al messaggio che il gruppo voleva trasmettere si sono fatti più duri e trasgressivi. Attenzione: questo non perché la musica degli anni Ottanta fosse più capace di muovere le masse a livello politico-sociale, semmai è vero il contrario. Rimane però il fatto che la musica rock, musica rivolta soprattutto ai giovani, ha sviluppato dei contenuti sempre più ribelli e trasgressivi ad alta fruibilità. 
Ora, io sono perfettamente d’accordo con la tesi che in realtà non esistano musiche pericolose, e che se anche un gruppo descrive realtà brutali, violente, la descrizione non è nulla rispetto alla realtà, pur ponendo caso che il gruppo in questione stia celebrando tali realtà, cosa che accade nell’un percento dei casi. Sono anche convinto che un gruppo rock difficilmente creda davvero nei messaggi duri e rivoluzionari – e spesso contraddittori[3] – che trasmette: ricordiamoci che sotto il chiodo e i tatuaggi si nascondono personaggi che hanno un’impresa privata, il loro gruppo,un brand, il nome del gruppo e un prodotto da promuovere e da vendere, la musica del gruppo – il tutto nella più perfetta logica capitalista della libera impresa. Eppure il potere costituito ha spesso reagito in modo piuttosto severo: si veda il caso dei Sex Pistols e del Pmrc americano. E una vasta percentuale di giovani ha potuto confrontarsi con verità scomode e incitamento alla ribellione contro un sistema oppressivo e ipocrita, bigotto e autoritario.
A questo punto poco importa se i rocker – punk, metallari o thrasher che siano – fossero i primi a non credere troppo in quello che comunicavano. E, guarda caso, in genere lo comunicavano alzando via via quella velocità del metronomo, plettrando più veloce e picchiando sui tamburi a un ritmo sempre più spedito. Contemporaneamente, il sistema reagiva, prima scompostamente e rivelando tutta la sua paura, poi in modo più ordinato, in quanto i membri più pragmatici del sistema avevano capito che in realtà la musica aveva perso il suo potere anni prima e che ormai era solo un gioco di società, oppure a voler essere generosi la riproposizione moderna di un qualche rito di rinnovamento[4]. Di fatto, gli anni Ottanta furono un decennio generalmente conservatore. Però, ripeto, nonostante tutto, quanto meno c’era sempre un qualche capellone tatuato e borchiato che con una chitarra urlava quanto il mondo degli adulti facesse cagare mentre la musica raggiungeva gli estremi limiti delle possibilità umane. E prima di entrare nel mondo degli adulti, spesso con soddisfazione, almeno i giovani avevano un assaggio di trasgressione e ribellione e potevano bearsi degli sguardi tra il rassegnato, lo scandalizzato e il rabbioso degli adulti più benpensanti e dei compagni di classe più addomesticati e repressi.
Poi però qualcosa è cambiato.

III
Tutto questo è durato fino a metà degli anni Novanta. In quel momento, le case discografiche americane decretarono – senza tener apparentemente conto, e questo è molto interessante, del mercato – la fine del thrash metal per costruire quasi in provetta un nuovo genere e una nuova moda, il grunge, che non aveva tutta quella carica eversiva, anche se fasulla, delle mode precedenti. Tanto per dire, punk ce ne sono anche oggi, grunge invece…
E poi è stato tutto uno scivolamento verso il basso. Il grunge era infatti una musica di spessore, se paragonata alle forme di rock venute dopo: fatevi una carrellata sul rock degli anni 2000 su Youtube se non mi credete. Il metal cercò di evolversi in forme più o meno imbastardite, ma al di là di un discorso sul valore della musica in sé, è indubbio che ormai non era più mainstream. Nel corso degli anni Ottanta, spesso il metal e il punk entravano in trame di libri e film destinati al grande pubblico, magari in maniera distorta e caricaturale, ma non importa, il punto è che comunque si supponeva che anche persone molto distanti dal mondo musicale sapessero di che si trattava quanto meno per sentito dire. Di più, anche le grandi star del pop mutuavano arrangiamenti e sonorità dal rock duro. Ma se nei primi anni Novanta, complice una deriva pop del genere, chiunque sapeva chi fossero i Metallica o gli Iron Maiden, verso il Duemila chi non ascoltava metal ignorava beatamente persino l’esistenza di tale genere. Si era tornati alla situazione originaria, dunque? Non proprio: gli ascoltatori della musica metal devono accontentarsi ormai di un metal barocco, manierista, che si limita a riproporre schemi triti e ritriti, e questo vale sia per le nuove leve sia per gli antesignani del genere[5]. E invece il rock che si è diffuso è un rock svilito, innocuo[6]. Eppure ai giovani – intesi statisticamente[7], ovvio – piace. E se i vecchi seguaci del progressive ai tempi dei Sex Pistols guardavano i giovani e li vedevano come dei ribelli scatenati, adesso i vecchi metallari guardano i giovani e pensano a come sia possibile che siano diventati simili, per gusti, atteggiamento e mentalità, ai loro nonni, visto che ascoltano musica che i loro nonni avrebbero apprezzato in ugual modo. Insomma, ormai dovrebbe essere chiaro: il senso generale di questo articolo non è dimostrare la scomparsa dell’heavy metal, che tra l’altro non mi interessa in sé, ma solo come esempio di musica considerata aggressiva e anti-establishment - anche perché non è affatto scomparso - né analizzarlo come un fenomeno di costume superato, non più un pezzo imprescindibile della temperie culturale di un periodo dato. M’interessa piuttosto notare come non ci sia stato un passaggio a qualcosa di ancora più veloce e aggressivo; siamo entrati, e da anni, in un periodo dove le sonorità sono per lo più edulcorate, parlando sempre a livello di mainstream, ovvio. Vale a dire: la sensibilità del pubblico dovrebbe essersi spostata verso l’alto e che l’heavy metal ormai sia fuori moda non stupisce, quello che stupisce è che non sia stato sostituito da qualcosa di ancora più duro e veloce. Certo, estremizzazioni che dovrebbero muoversi in tal senso ce ne sono, e in alcuni casi possono raggiungere vette di vendita di tutto rispetto: eppure l’impressione è che non rappresentino la vera cifra dei tempi che corrono. Solo un rapido esempio: nel 1992, nella classifica degli hit single, gli Iron Maiden raggiungono il secondo posto, anche se solo per una settimana, e in classifica ci vanno anche Guns’ n Roses, Faith No More e Metallica, anche se con un lento. È poco, certo[8], ma nel 2012 il panorama è ben più deprimente: nessun pezzo di rock duro in classifica.
Evidentemente, torno a ripetere, vent’anni prima la velocità era riuscita a colpire l’immaginazione delle masse, con tutto quel carico di immagini ribelli e anticonformiste che secondo me erano lì soltanto per fare da contorno alla ricerca di tecnica, precisione e, inevitabilmente, di velocità. E sarebbe interessante capire come venissero originate quelle immagini e quelle iconografie, visto che gli artisti non le producevano consciamente né le utilizzavano a ragion veduta, per limitarsi a usarle, prendendole da altri ambiti, ma questo ci porterebbe fuori dall’ambito della nostra indagine. Però, c’erano, ed è questo che conta in definitiva. Mentre adesso, a quanto pare persino la velocità è stata addomesticata, si è riusciti cioè a spezzare il binomio velocità di esecuzione con immaginario duro e violento.  
E mentre il metronomo viene settato sempre di più sugli slow (76 – 108) o sui midtempo rock (108 – 120) c’è forse qualche appartenente delle élite al potere che si sta sfregando le mani nell’ombra...

Conclusioni
Insomma, tirando un po’ le somme e tanto per dare una schematizzazione del tutto semplicistica ma, ancora una volta, ossequiosa più della percezione mainstream che della realtà, si potrebbe dire che negli anni Sessanta c’erano gli hippie, negli anni Settanta i punk, negli anni Ottanta il metal, negli anni Novanta, forse, il grunge. E nel Duemila? A quanto pare non è pervenuta nessuna moda giovanile davvero originale, anche tralasciando il parametro della ribellione e dello scontro con i valori della tradizione[9]. Ma, attenzione, in realtà non siamo più negli anni zero, ma nel 2012, e questo stato di cose dura dai tardi anni Novanta, se non prima. Tornando quindi al tema del numero, non sarà che la civiltà occidentale stia rallentando la sua corsa? O forse sta accadendo qualcosa che noi non sappiamo?







[1] Articolo precedentemente apparso con il titolo Duro e veloce. Un appunto di politica della musica sul numero 26 de Lo Squaderno, disponibile al link http://www.losquaderno.professionaldreamers.net/
[2] “E la pavidità, la superficialità, la stupidità del Potere e del Sistema – al cospetto del nascente spauracchio punk di metà anni Settanta, sono ben espresse dalla seguente presa di posizione del deputato laburista inglese Marcus Lipton (si noti: non conservatore, bensì progressista): […] pertanto non è solo musica la loro. Infatti a me piace la musica, mi piace l’hard rock, ma non mi piace il punk.” Sex Pistols Punk, William Mandel, Edizioni Blues Brothers, Milano, 1989
[3] “Ai Maiden tuttavia manca una cosa: la cattiveria. Le copertine dei Maiden furono allora e lo sono ancor oggi, con una significativa sfasatura rispetto al contenuto musicale non poi così estremo, le più violente, orripilanti, sadico-masochistiche mai viste: in quella di Killers ad esempio ED troneggia con la sua pelle scuoiata, un'accetta insanguinata e una maglietta tirata dalle mani della vittima appena squartata. Eppure il gruppo è più elegiaco che anarchico. Questa ne è una peculiarità pregevole e che pochi hanno: il nichilismo porta a due cose; o al disinteresse di tutto o alla cattiveria fine a se stessa; la cattiveria, poi, può derivare da un interesse eccessivo verso quegli aspetti del mondo per accaparrarci dei quali abbiamo bisogno della suddetta. Ecco, ai Maiden, fondamentalmente innocui sognatori, manca tutto questo: mancanza riempita dal sublime poetico”. http://www.ondarock.it/Iron.html
[4] “L’occasione del festival unisce migliaia e migliaia di giovani inquieti che accettano gran parte delle contraddizioni della società in cui vivono, ma se ne sentono poi in qualche modo contaminati. La musica, la danza selvaggia, il rovesciamento di ogni regola, l’orgia, hanno per questi giovani il valore di un bagno purificatore”. L'alba dell'uomo/ Carlo Alberto Pinelli, Folco Quilici; introduzione di Jean Cuisenier. Bari : De Donato, 1974.
[5] Notevole a questo proposito il testo dei Megadeth – tra l’altro anche loro non nuovi a rallentamenti notevoli al metronomo e a un notevole ammorbidimento degli arrangiamenti per superare la temperie sfavorevole – di Back in the day. Davvero si avverte, quasi contrariamente alle intenzioni verrebbe da dire, una nostalgia per un tempo ormai passato.



Peals of thunder, sheets of lightning
The power hits the stage
The music was exciting
The mania raged

Rombo di tuono, cascate di fulmini
La potenza accende il palco
La musica era eccitante
La mania infuriava


[6] Sembra di essere tornati verso la fine degli anni Quaranta: “Erano anni in cui le canzoni erano orribili, non come quelle della mia infanzia, erano canzoni stolte dello stolto dopoguerra”. La misteriosa fiamma della regina Loana : romanzo illustrato / Umberto Eco. Milano : Mondolibri, 2004.
[7] Tuttavia non c’è una moda totalizzante: “Il rock’n roll si sbarazzò delle caratteristiche che avevano reso così popolare il jazz, come le armonie raffinate, i ritmi frizzanti e i testi malinconici e rassicuranti. Al loro posto si insediavano ritmiche regolari e aggressive, implacabili giri di blues e testi dalla forte carica ormonale. I teenager di tutto il mondo occidentale furono sedotti da queste nuove e potenti sonorità, che soprattutto colpivano per l’uso ispirato al blues della chitarra elettrica, e si identificavano con il suo carattere distintivo. Da allora non c’è più stato un genere che abbia saputo definire con altrettanta potenza un’intera generazione.” Come scrivere canzoni una guida per chitarristi, Leo Coulter e Richard Jones, Il Castello srl, Milano, 2011
[8] Ricordiamo comunque che la famosa heavy metal band ha piazzato nel corso della sua carriera 29 hit, tra cui undici nella Top Ten inglese, dal 1980 al 1999.
[9] “Una cosa di cui sono contento è aver vissuto gli anni Sessanta. Chi non lo ha fatto, davvero non sa cosa si è perso. […] gli unici momenti in cui ho visto la vera ribellione sono stati gli anni Cinquanta, Sessanta e l’inizio dei Settanta. Il resto potete tenervelo. I ragazzi di oggi assomigliano molto di più a quei genitori a cui, una volta, cercavamo di opporci! Probabilmente finiranno per allevare a loro volta una generazione di sconvolti. Noi abbiamo cresciuto una generazione di agenti immobiliari, una stirpe di maledetti contabili.” La sottile linea bianca: autobiografia / Lemmy Kilmister con Janiss Garza. Milano: Baldini Castoldi Dalai, 2005.

giovedì 23 maggio 2013

Tutto in famiglia




Jimmy stava osservando il cartellone pubblicitario fuori dal palazzetto in cui si sarebbe tenuto il concerto delle Used to be Ugly, il suo gruppo più odiato. E Jimmy aveva un’ottima ragione per odiare le Used to be Ugly: che la cantante chitarrista del gruppo era nientemeno che sua madre.

Tutto era iniziato quel  giorno in cui Jimmy aveva preso in giro sua madre per il fatto che lei desse tanta importanza a una cosa tutto sommato stupida come rifare un letto, quando lui era troppo occupato a studiare un riff dei Sex Pistols sulla sua chitarra, che aveva comprato da appena tre settimane ma sulla quale riusciva già a suonare qualche semplice sequenza di accordi. Ah, se Jimmy avesse aspettato di fare quella conversazione quando sarebbe stato in grado di suonare la chitarra davvero, con assoli e tutto,  probabilmente quella merda non sarebbe mai accaduta. Invece, sua madre aveva mollato l’aspirapolvere, gli si era avvicinata e gli aveva strappato la chitarra fra le mani, dicendogli che sarebbe diventata più brava di lui in molto meno tempo. Jimmy le aveva riso in faccia, anche se conoscendo la sua determinazione  in fondo non si era sentito molto tranquillo. E infatti: a capo di un mese sua madre aveva fatto dei passi da gigante, complice il fatto che aveva trovato un collega che le dava delle dritte su come eseguire determinati lick o accordi. E poi, come si dice, da cosa era nata cosa: sua madre, sempre per mezzo di questo collega, aveva trovato altre due pazze sulla quarantina che avevano deciso di buttar via un po’ di soldi e tempo  per trovarsi nella cantina di una di queste per fare un po’ di casino, come diceva sua madre.

E così, Jimmy aveva rinunciato completamente a suonare la chitarra e ai suoi sogni di gloria in campo rock, pensando che in fondo avere una serata da stare a casa da solo una volta alla settimana non era poi male. Tanto più che proprio la serata delle prove era quella in cui la sorella maggiore di Jimmy aveva karate, per cui Jimmy sarebbe stato libero di chiamare qualche amico per vedere un film in pace, per esempio, senza dover sottostare alle prepotenze di sua sorella.

Solo che Jimmy non aveva tanti amici da invitare a casa, e comunque ben presto  aveva scoperto che starsene a casa tranquillo non era quello che voleva. Le sue aspirazioni erano altre: movimento, casino, conoscere gente, salire su un palco… e per colpa di quella stronza di sua madre aveva dovuto rinunciare a tutte queste cose! Sì! Proprio per colpa di sua madre, che nel momento in cui si era dimostrata più brava di lui su uno strumento come la chitarra gli aveva tolto qualsiasi velleità artistica. E non solo: cosa avrebbe detto la gente se quella storia fosse venuta fuori?  Già si immaginava le prese in giro dei suoi compagni…

E attenzione: a un certo punto il gruppo di sua madre, le Used to be Ugly, come si erano chiamate, avevano cominciato a rappresentare un’ottima attrazione per i concerti dal vivo! E venivano pure pagate profumatamente per esibirsi! Tutto questo mentre sua sorella si divertiva sul tatami  e lui marciva in casa a studiare. Quel giorno, poi, era un po’ il culmine della sua umiliazione: quella sera si sarebbero esibite come headliner al palazzetto dello sport della città, un traguardo più che ragguardevole per un  gruppo locale che si era costituito da così poco tempo. Insomma, a questo punto era assolutamente necessario fare qualcosa. Per un attimo, quasi si era pentito di aver rifiutato, e sdegnosamente, quando sua madre gli aveva offerto il ruolo di tecnico delle chitarre ai loro concerti, nome altisonante che in realtà si sarebbe tradotto in collegare le chitarre a un accordatore  e magari a pulirle, perché in quel modo avrebbe potuto effettivamente fare quello che aveva in mente di fare… ovvero un sabotaggio.

Però, a questo c’era rimedio, in quanto sua sorella proprio quei giorni era in gita scolastica e visto che sua madre era stata irremovibile nell’avere almeno uno dei suoi figli al concerto, gli aveva procurato un pass chiedendogli, anzi, ordinandogli, di essere presente. Jimmy le aveva detto che sarebbe arrivato tardi per una questione di compiti, al che sua madre gli aveva risposto di essere presente all’inizio del concerto e soprattutto al party previsto per dopo, perché voleva presentarlo a delle gente che conta nel giro musicale, e chissà che anche lui non avrebbe avuto la sua possibilità. Dopo una frase del genere, il sabotaggio era un must, ma come fare?

Ci si era arrovellato per giorni, poi gli era venuto in mente che il concerto si sarebbe tenuto il sabato sera, ma quel giorno lì era festa, per cui tutti i negozi sarebbero stati chiusi. E se fosse entrato prima del concerto per rubare un rullante, ad esempio? Con tutti i negozi chiusi sarebbe stato molto difficile sostituirlo. Tuttavia, era anche vero che i gruppi spalla avrebbero potuto sostituire qualunque pezzo lui avesse rubato. A meno che… 

Era entrato senza farsi notare da nessuno, buona cosa, e senza farsi perquisire, ottima cosa: perché aveva uno zaino con sé e non sarebbe stato facile spiegare quello che lo zaino conteneva. Comunque, fece un giro sugli spalti, e immediatamente capì che il suo piano avrebbe potuto avere successo: gli organizzatori, con uno sforzo davvero eccessivo per quelli che erano poi dei gruppi locali, avevano montato uno di quei palchi rotanti in cui l’attrezzatura del gruppo che sta suonando è sulla mezzaluna esposta al pubblico, quella del gruppo che non sta suonando è rivolta  verso le quinte, in modo che quando è il momento del cambio palco non c’è soluzione di continuità. E dal momento che le due parti del cerchio erano separate da muri di Marshall, Jimmy potè scivolare nel buio del concerto e darsi da fare. Fece alcune aggiustatine alla batteria, ad esempio allentando le viti del pedale e facendo un piccolo danno alla rete del rullante, poi passò, con l’aiuto di una piccola torcia elettrica e di quello che lo zaino conteneva, ovvero un’attrezzatura completa da elettricista, agli amplificatori. Eh, le Used to be Ugly avrebbero avuto il loro bel daffare per finire il concerto… Insomma tutto stava andando per il meglio quando una mano robusta gli calò violentemente sulla spalla. Con un gemito, si girò, solo per venire investito dal fascio luminoso di una Maglite:

“Jimmy? Che cosa stai facendo qui?” Oh, no. Era sua sorella.

“Ma non dovevi essere in gita?”, riuscì a balbettare.

“Sono tornata appena in tempo per svolgere il ruolo di security per il gruppo di nostra madre, non mi sarei persa quest’occasione per nulla al mondo!”, disse, poi aggiunse, con un’espressione ancora più minacciosa:

“Ma, ripeto, tu che cosa ci fai qui dietro?”